Ero sulla gay street, l’altra sera tra venerdì e sabato, quando si è consumata l’ennesima violenza contro alcune persone “colpevoli” di non essere eterosessuali. Non ho visto l’aggressione che si è consumata di fronte a centinaia di ragazzi e ragazze (ero andato via prima), ma da quanto emerge dalle ricostruzioni e dalle cronache dei giornali si è trattato di una vera e propria spedizione punitiva.

I fatti sono banali, come il male che li determina: una coppia di genitori, rigidamente eterosessuali, scopre che la figlia (maggiorenne, contrariamente a quanto si dice) sta con una donna (di pochi anni più grande di lei). Quindi si recano in via di San Giovanni in Laterano e aggrediscono la fidanzata della ragazza, con ingiurie, calci e pugni: anche nello stomaco. Chi ha provato a far ragionare il padre, che nel frattempo ha anche fatto volare tavoli e sedie, si è preso insulti. Poi sono intervenute le forze dell’ordine e si è tornati alla “normalità”. Una normalità in cui se sei gay, lesbica o trans, sono previste violenze e umiliazione.

Soffermiamoci un attimo su quanto è accaduto e, soprattutto, su quanto è stato detto. La madre della ragazza ha raggiunto la fidanzata di questa, pronunciando: «Tu sei entrata nel nostro mondo e ora io entro nel tuo». Quindi le sferra uno schiaffo. In questo atto emerge tutto il senso del pregiudizio e dell’odio che hanno determinato parole e azioni. L’omosessualità è vista come corpo estraneo, come intrusione, rispetto alla normale tranquillità familiare. Quella giovane donna è colpevole non solo di essere lesbica, ma di aver portato l’omosessualità laddove regnava l’ordine, la “natura”, le cose come “devono” essere. Non si riconosce, in altri termini, alla propria figlia un’identità specifica e il diritto di fare delle scelte affettive. C’è un’invasione di campo e una reazione conseguente. L’unica possibile per questo tipo di persone: la violenza, appunto.

Analizziamo, ancora, i termini di questa “invasione”. Per i genitori si è trattato di un traviamento. Così come l’omosessualità irrompe nella nostra vita, noi irromperemo nel mondo dell’omosessualità, si sono detti. Con una differenza di fondo: in un caso, la “contaminazione” è stata dettata dall’amore; nell’altro, ha avuto come reazione l’odio di chi non riesce a riconoscere – e quindi ad abbracciare – la diversità. Ed è proprio in questo che si consuma il discrimine tra le due realtà, tra chi è capace di includere nelle proprie esistenze l’altro da sé, a prescindere dalle sue peculiarità, e chi invece oppone solo il rifiuto: lo stesso tra l’amare e l’incapacità di farlo.

Ho letto, ancora, commenti sulla vicenda quali: “In tutte le famiglie si verificano episodi del genere, non ha senso dare tutta questa importanza”, “è normale che non si accetti l’omosessualità della propria figlia, neanche io ci riuscirei” e perle siffatte. A questa gente si dovrebbe rispondere che in quelle famiglie in cui non si accetta il fidanzato di lei o la futura moglie di lui si oppongono questioni legate allo status sociale, alla cultura di appartenenza, a volte al razzismo. Non è mai un caso di orientamento sessuale, che viene dato per scontato e accettabile (visto che è lo stesso della famiglia di provenienza). Ed è qui che si innesta il cortocircuito. E andrebbe anche detto, sempre a queste persone, che la violenza non è una giustificazione, ma un’aggravante. E che due torti, in buona sostanza, non fanno mai una ragione.

Concludo ricordando vecchi e nuovi slogan del fronte omofobo nostrano, per cui la prole, per crescere bene, “ha bisogno di un padre e di una madre”. Gli stessi magari che quando cresci e non sei come loro vogliono, vengono a raggiungerti laddove vivi la tua socialità e il tuo diritto all’amore, e ti umiliano in pubblica piazza, violano la tua integrità fisica, la tua dignità e picchiano, davanti ai tuoi occhi, la persona che hai scelto di amare. Questi fatti dimostrano, tuttavia, un’evidenza: l’eterosessualità (elevata a norma morale) non è quella garanzia di felicità che qualcuno vorrebbe imporre a chiunque. Se ne facciano una ragione chi scende in piazza a pontificare contro le persone Lgbt e chi le raggiunge nei propri luoghi di aggregazione per violentarle nel corpo e nella dignità.

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