24 gennaio 2016-24 settembre 2016. Otto mesi. Tanto è durato il processo di “istituzionalizzazione” del Movimento 5 Stelle, pare definitivamente abortito, stando alle ultime dichiarazioni del rientrante ex auto-lateralizzatosi leader Beppe Grillo.

Per “istituzionalizzazione” – lo ricordo perché è passato del tempo dall’ultima volta che me ne sono occupato su questo blog – si intende quel percorso di crescita, differenziazione interna e consolidamento che un movimento sociale è chiamato a intraprendere (spesso a scapito del proprio leader carismatico), come condizione necessaria ma non sempre sufficiente per il passaggio alla fase “adulta”.

24 gennaio 2016-24 settembre 2016, dicevamo. Otto mesi tondi tondi, non una mezza giornata di più, non una di meno. Comunque insufficienti a dimostrare eventuali capacità di autogoverno di uno dei principali attori collettivi della scena politica italiana. “Scusa se è poco”, per dirla alla Abatantuono.

D’altro canto, ritenere le difficoltà di gestione interna un sintomo di incapacità “grillina” è tanto semplice, quanto banale e fuorviante. In questi otto mesi, infatti, al Movimento è capitato un po’ di tutto: non abbiamo bisogno che ci venga detto per sapere che la scomparsa prematura di uno dei padri fondatori costituisce un trauma dal quale l’organizzazione non si è ancora ripresa; e si sa, se l’ebrezza delle vittorie serve innanzitutto a serrare le fila, l’ordinaria quotidianità del governo delle istituzioni riserva difficoltà, inciampi e impone decisioni che comportano fisiologicamente una certa dose di scontento e frustrazione, anche quando non si mette in fila l’impressionante serie di errori, ingenuità e omissioni che hanno contribuito a intricare la già quasi-inestricabile matassa della Capitale; della vicenda Pizzarotti, poi, non si è ancora detto tutto, ma qui divagheremmo e mi riprometto di tornarci in uno dei prossimi post…

Quando un movimento perde il proprio leader carismatico, in assenza di un “delfino” benedetto dall’alto e riconosciuto dal basso, si apre una fase “rivoluzionaria” (nel senso etimologico del termine), il cui esito oscilla tra un numero molto limitato di alternative, che semplifico in due punti:

1. il movimento non regge alle spinte centripete del cambiamento e si disintegra sotto il peso delle lotte intestine, al termine di una fase conflittuale più o meno ampia e cruenta, nel corso della quale non emerge una nuova leadership né si instaura un nuovo sistema di governo in grado di durare.

2. Il movimento si trasforma in istituzione, al termine di una fase più o meno conflittuale ecc. ecc. (v. sopra), nel corso della quale si afferma un nuovo leader e/o un nuovo sistema di governo duraturo.

La sociologia ha da tempo mostrato come il passaggio dall’esito 1 all’esito 2 è innanzitutto una questione di redistribuzione di ruoli, dunque di potere. L’istituzione del Direttorio, che alcuni avevano salutato come il tentativo, per quanto imperfetto, di un’auspicabile più equa e democratica spartizione del potere all’interno del Movimento, di democratico aveva a ben vedere assai poco, rappresentando semmai la più conservatrice delle metamorfosi del potere: dismettere una leadership assolutistica per instaurare un’oligarchia.

Uno strumento nato per servire la causa del buon governo del Movimento ha finito per rivelarsi una discutibile figura retorica, fiaccata da sospetti e personalismi, il cui potere effettivo (per lo più semantico) è evaporato alla prima esternazione del vero e unico leader carismatico, da sabato auto-restauratosi con l’editto di Palermo.

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