Output gap“. Cioè la differenza tra il pil effettivamente prodotto da un Paese in un dato anno e quello potenziale, che potrebbe raggiungere al netto di crisi economica e circostanze eccezionali. C’è questo tema ad alto tasso di tecnicismo, insieme alla revisione del famigerato Fiscal compact, dietro lo strappo tra il premier Matteo Renzi e i maggiori partner europei al summit dei 27 che si è svolto venerdì a Bratislava. Da quasi due anni, infatti, l’Italia contesta il metodo di calcolo dell’output gap utilizzato dalla Commissione, sostenendo che penalizza la Penisola imponendole correzioni dei conti superiori al necessario. La novità degli ultimi giorni è che, secondo indiscrezioni di cui ha dato conto La Stampa, la revisione di quel calcolo è congelata e se ne riparlerà solo l’anno prossimo. Con il risultato che il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan, che a fine maggio aveva cantato vittoria sostenendo che Bruxelles avrebbe “cambiato i suoi metodi”, deve rifare i conti a meno di un mese dalla presentazione della legge di Bilancio. E mentre è già alle prese con una crescita del pil asfittica rispetto alle previsioni.

“Dalle istituzioni europee è arrivato un no secco, che ha provocato la sceneggiata del Bomba di ieri al vertice di Bratislava”, si legge in un post sul blog di Beppe Grillo che riprende la notizia. Ma che cosa c’è in ballo, concretamente? Il governo ritiene che la crescita potenziale dell’economia italiana, cioè quella che potremmo mettere a segno usando fino in fondo tutti i fattori produttivi a disposizione, sia più alta di quanto stimato dalla Commissione. Tesi corroborata dal fatto che anche le stime dell‘Ocse e del Fondo monetario internazionale sono più generose. Ne deriva che in base ai calcoli europei l’Italia risulta avere un saldo strutturale (differenza tra entrate e uscite) negativo, da correggere con manovre restrittive. Al contrario, come evidenziato già in una nota al Documento programmatico di bilancio 2015, la metodologia italiana e Ocse restituisce per il 2015 un saldo strutturale positivo pari allo 0,5% del pil. Una performance addirittura più virtuosa dello 0% richiesto come obiettivo di medio termine per garantire un bilancio in equilibrio, obiettivo inserito nella Costituzione (articolo 81) quando l’Italia, nel 2012, ha recepito le regole del Patto di stabilità e crescita.infografica_gap

Alla luce delle cifre dell’Ocse la legge di Stabilità per quest’anno avrebbe potuto essere più espansiva. Via XX Settembre contava nei mesi scorsi di vedersi riconoscere un output gap più basso almeno per il 2016, in modo da godere di maggior libertà di manovra nell’impostare la manovra per il 2017. Ma, appunto, stando al quotidiano torinese il dossier che era stato aperto sulla base di una lettera inviata a Bruxelles da Italia, Spagna, Portogallo, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Slovenia e Slovacchia non è più sul tavolo. C’è un gruppo di lavoro ad hoc, l’Output Gaps Working Group, ma una fonte della Commissione ha confermato all’Ansa che “non c’è un accordo definitivo perché la questione è “tecnicamente problematica” e al massimo si cercherà di “introdurre una sorta di realismo nei risultati meccanicistici della metodologia adottata”.

Non abbastanza, probabilmente, perché Roma si veda limare il valore del deficit rispetto al pil e abbia quindi a disposizione maggiori margini di flessibilità, che consentirebbero di fare meno tagli e avere più risorse da impiegare per interventi di stimolo all’economia. Di fronte allo smacco, Renzi ha deciso di ribaltare il tavolo. Per l’anno prossimo, stando alle anticipazioni di questi giorni, si accontenterà di portare il rapporto deficit/pil almeno al 2,3% rispetto all’1,8% concordato con la Ue la scorsa primavera, recuperando così circa 8 miliardi che si sommano all’indebitamento aggiuntivo già approvato dalla Commissione. Non a caso anche nell’intervista data al Corriere domenica ribadisce che la legge di Bilancio italiana “onora le regole europee” e “il deficit scende ancora, rispetta i parametri del fiscal compact che il Parlamento precedente ha votato su indicazioni di Brunetta e Fassina“.

Ma nei mesi successivi la battaglia sarà proprio sul fiscal compact, l’accordo intergovernativo sulle politiche di bilancio che prevede tra l’altro il famigerato paletto del 3% al rapporto deficit/pil e la riduzione forzata dei debiti pubblici che, come quello italiano, superano il 60% del prodotto. Entrato in vigore nel 2013, l’anno prossimo quel trattato sarà sottoposto a un “tagliando” per decidere se incorporarlo nella legislazione europea così com’è o modificarlo. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, il 14 settembre, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha auspicato una “applicazione flessibile ma intelligente in modo da non frenare la crescita”. Roma chiede una semplificazione delle regole e una minore rigidità, che, come sottolineato dal premier, vengono applicate con rigore sul fronte del deficit ma non su quello dei disavanzi commerciali. Il riferimento è diretto alla Germania, che “viola la regola del surplus commerciale: dovrebbe essere al 6% e invece sfiora il 9%. Nessuno chiede ai tedeschi di esportare di meno, ma hanno l’obbligo di investire di più”.

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