In un’Italia dove i nidi sono pochi, le nonne garantiscono alle mamme che lavorano un servizio di cura dei figli affidabile e a basso costo. Le riforme pensionistiche potrebbero perciò avere effetti negativi sull’occupazione delle donne con bambini piccoli. E il bonus bebè non basta a compensarli.

di Massimiliano Bratti, Tommaso Frattini e Francesco Scervini  (Fonte: lavoce.info)

Italia senza nidi

L’Italia è tra i paesi con il minore tasso di occupazione femminile in Europa, 46,8 per cento contro una media Ue-28 di circa il 60 per cento (2014, dati Eurostat). Peggio dell’Italia fanno solo Turchia, Macedonia e Grecia. Altrettanto elevato è il differenziale occupazionale uomini-donne: circa 18 punti percentuali contro gli 11 punti percentuali della media europea. Varie ragioni sono alla base della difficoltà delle donne di conciliare famiglia e lavoro. Tra queste, il modello culturale ancora prevalente, che vede l’uomo provvedere al sostentamento della famiglia, e la scarsità di politiche di conciliazione famiglia-lavoro. In particolare, l’Italia spende ancora troppo poco per i servizi pubblici di assistenza all’infanzia (vedi figura).

Figura 1 – Spesa pubblica per servizi di cura dell’infanzia e istruzione pre-primaria, percentuale del Pil, 2011
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Fonte: Nostra rielaborazione su Oecd, Social Expenditure database 2014; Oecd Education database; Eurostat for Non-Oecd countries (Chart PF3.1.A).

Secondo il rapporto C’è un nido? del 2015 curato da Cittadinanza Attiva, solo l’11,9 per cento dei bimbi italiani sotto i due anni di età ha usufruito del servizio di asilo nido comunale o comunque con integrazione comunale, nell’anno scolastico 2012-13.

Non è allora sorprendente che in questo contesto generale, in Italia (ma non solo) i nonni possano rappresentare un’importante risorsa per le mamme, come fonte di cura dei figli flessibile, affidabile e a basso costo. A partire dagli anni Novanta, tuttavia, una serie di interventi legislativi ha innalzato l’età pensionabile e, in generale, ha reso più stringenti i requisiti per la pensione, con l’obiettivo di rendere il sistema pensionistico capace di far fronte al progressivo invecchiamento demografico. Un effetto collaterale delle riforme è stato quello di sottrarre alle famiglie una preziosa fonte di supporto nella cura dei figli: i nonni.

Gli effetti delle riforme pensionistiche

In un nostro recente studio abbiamo utilizzato le riforme pensionistiche per quantificare l’effetto che la disponibilità (o indisponibilità) di nonni ha sull’occupazione delle madri di figli sotto i 15 anni. Ci siamo focalizzati in particolare sul periodo pre-crisi (1993-2006), utilizzando i microdati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, curata dalla Banca d’Italia.

I nostri risultati mostrano che donne le cui madri hanno maturato i requisiti pensionistici hanno una probabilità di essere occupate di ben 7,8 punti percentuali superiore rispetto a quelle con madri che non hanno (ancora) diritto al pensionamento. La differenza corrisponde a un aumento del 13 per cento della probabilità di lavorare nella media del campione. Un simile effetto non si trova invece né per la nonna paterna, né per i nonni (maschi).

Il nostro modello, nello spiegare l’occupazione delle donne con figli, tiene esplicitamente conto delle determinanti dei requisiti di pensionabilità dei nonni (genere, età, livello di istruzione, lavoro nel pubblico o nel privato, attività indipendente o alle dipendenze) che potrebbero sia influenzare il livello del reddito da lavoro e le loro pensioni sia avere un effetto diretto sull’occupazione delle donne, sfruttando così unicamente le variazioni nei requisiti di pensionamento indotte dalle riforme.

Per questa ragione non abbiamo particolari motivi per attenderci che il possesso dei requisiti di pensionamento delle nonne materne stia cogliendo altri effetti positivi delle riforme pensionistiche sull’occupazione delle donne con figli, non necessariamente legati alla maggior disponibilità di servizi informali di cura dei figli. Abbiamo comunque stimato gli stessi modelli di regressione anche sugli uomini con figli minori di 15 anni, sulle donne senza figli giovani conviventi e su quelle con figli in età pre-scolare.

Nei primi due casi non abbiamo riscontrato alcun effetto sulla probabilità di occupazione dei nostri due campioni del possesso da parte dei loro genitori o suoceri dei requisiti per il pensionamento, mentre nell’ultimo caso l’effetto positivo stimato sull’occupazione è del 34 per cento. Questo rafforza la nostra interpretazione che l’effetto stimato sia prevalentemente spiegabile con la maggiore disponibilità di servizi di cura dei figli garantita da nonni in pensione.

Il nostro studio suggerisce che le riforme pensionistiche potrebbero avere effetti negativi non voluti sull’occupazione delle madri con figli giovani, senza adeguate politiche pubbliche che possano riempire il vuoto nell’offerta di servizi all’infanzia creato dalla ridotta disponibilità (soprattutto) di nonne che lavorano fino a tarda età. L’ammontare mensile del cosiddetto “bonus bebè”, 80 euro, ossia grossomodo il costo di una giornata di cura dei bambini, appare perciò del tutto insufficiente a ovviare al problema. L’assenza di correttivi potrebbe contribuire a inasprire ulteriormente il già elevato divario occupazionale tra uomini e donne e anche crearne uno tra donne in età fertile e donne mature.

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