Cortocircuito tra investigatori e tra ministeri, conti che non tornano e nodi ancora da sciogliere: ora che pare essere al capolinea, ricomincia a complicarsi la vicenda giudiziaria relativa al gasdotto Tap, l’infrastruttura che fra quattro anni prevede di far giungere il gas azero in Italia, via Salento. Per la Procura di Lecce, tutto è in regola. La sua doppia richiesta di archiviazione delle inchieste in corso, a firma direttamente del procuratore capo Cataldo Motta, ne è la prova. Si attende la decisione del giudice per le indagini preliminari. Nel frattempo, però, vengono a galla gli interrogativi ancora senza risposta certa, i dietrofront messi nero su bianco e i documenti che scottano, come l’informativa depositata a giugno dai carabinieri del Noe di Lecce, secondo i quali i lavori di fatto non sono stati avviati nei termini previsti. Sono due, in particolare, le questioni ancora aperte.

Il cantiere: c’è o non c’è? – Nelle campagne di Melendugno, i militari del Nucleo operativo ecologico leccese ci vanno il 17 maggio. Il loro sopralluogo, in quanto polizia giudiziaria delegata alle indagini dal pm Angela Rotondano, serve a stabilire se davvero il cantiere è stato avviato, perché il termine ultimo da rispettare è quello del giorno prima, il 16 maggio, pena la decadenza dell’Autorizzazione unica. I carabinieri mettono a verbale che sono state installate tre piccole recinzioni e incontrano cinque operatori che affermano di stare eseguendo, per conto di Tap, indagini archeologiche e ricerca di eventuali ordigni bellici. Per il resto, nulla. Documentando con apposito fascicolo fotografico, il Noe giunge alla conclusione: non c’è alcuna attività lavorativa in corso. È quanto scritto nell’informativa consegnata il 6 giugno, mai citata nelle richieste di archiviazione della Procura ma ora acquisita dal Comune di Melendugno per motivare la propria opposizione.

Per il pm Motta, invece, l’installazione del cantiere è provata dalla polizia locale, che attesta la presenza di una recinzione realizzata con rete in Pvc, e da verifiche svolte dalla sezione di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza, il 20 maggio: nell’area di contrada Fanfula è arrivato un bagno chimico e in alcuni punti è stato rimosso lo strato superficiale di 5 cm per i saggi archeologici. Ma il vero punto è: cosa identifica l’inizio lavori? Per il Mise e per la Procura, non ci sono dubbi: “Anche quelli inerenti alle indagini archeologiche e alla bonifica da eventuali ordigni bellici – scrive Motta – sono, ovviamente, lavori a tutti gli effetti”. Per Regione Puglia e Comune, invece, serve altro. Il 5 luglio, è il ministero dell’Ambiente ad affermare che si è in alto mare: “Attualmente si è nella cosiddetta Fase 0, ovvero di avvio del cantiere, consistente in particolare nella rimozione degli ulivi e realizzazione della strada di accesso all’area di cantiere del microtunnel”.

Il nodo Seveso: calcoli sconosciuti e plurimi dietrofront – Il nodo Seveso si tinge di giallo. È questo il punto sul quale è in corso un braccio di ferro cruciale tra Bari e Roma e su cui a gennaio sarà chiamato ad esprimersi il Consiglio di Stato. Inizialmente, nel 2014, è il ministero dell’Ambiente a sottoporre, attraverso apposita prescrizione, il terminale di ricezione del gasdotto alla legge sul rischio di incidenti rilevanti. Poi, dopo un confronto con i ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Interno, alle soglie della conferenza dei servizi del 3 dicembre 2014, arriva a sostenere il contrario: in un proprio decreto di aprile 2015, elimina quella prescrizione.

Cos’è successo nel frattempo? Le argomentazioni sono duplici. La prima: per gli organi capitolini, il terminale di ricezione (Prt) non è uno “stabilimento”, per cui Tap può sfuggire alle maglie strette della Seveso. La seconda: il quantitativo massimo di gas che lì verrà accumulato è pari a 48,6 tonnellate, sotto la soglia delle 50 che farebbero scattare l’applicazione della normativa. Ma chi stabilisce quelle cifre? È la stessa Tap. Ignoti restano i calcoli effettuati per giungere a quei quantitativi di materiale infiammabile, questione essenziale in caso, ad esempio, di esplosione. A fare quei conti, sulla base di stime, avrebbe dovuto essere un apposito comitato tecnico regionale di valutazione incendi, composto da più enti. Ma questa fase non è stata mai espletata. I tre ministeri, infatti, hanno ritenuto che si poteva evitare, semplicemente perché il Prt non è qualificabile come “stabilimento” e questo getta il velo anche sul resto. Eppure, qualche numero non torna: il 14 febbraio 2013, il Comando provinciale dei vigili del fuoco di Lecce, sulla base di propri calcoli, ha sostenuto con nota ufficiale che “il quantitativo di gas naturale presente all’interno del Prt è pari a 100 tonnellate”. Dopo allora, di quel dato non vi è più traccia. Gli stessi vigili del fuoco vanno avanti dando per buono quello della multinazionale. Lo fa anche il consulente tecnico nominato dalla Procura, il chimico (ma non analista di rischio) Mauro Sanna, per il quale, comunque, poiché si raggiunge il 97,2 per cento della soglia limite, è “di grande importanza che tale valore massimo risulti effettivamente garantito nella fase operativa”. Non a caso, si consiglia l’installazione di un sistema di monitoraggio in continuo per vigilare su eventuali sforamenti, richiesta inoltrata alla Prefettura di Lecce.

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