La polvere scaturita dai crolli immani restò sospesa giorni e giorni sopra le macerie delle Due Torri, una nube grigia e viscosa, lugubre e minacciosa. Ognuno di noi ci si tuffò dentro come per espiare la colpa d’essere vivi: i newyorchesi piangevano dinanzi allo scempio e al sapore di morte che aleggiava sulle rovine; i giornalisti dovevano raccontare il dopo attentato, l’inchiesta, il dolore dei parenti delle vittime, la città annichilita. Si andava laggiù, downtown, come in pellegrinaggio, disorientati nel cuore e nella mente. Andammo a respirare l’aria greve e polverosa della fine di un mondo, di un’epoca, consapevoli che sarebbe tutto cambiato. La Pax Americana era seppellita lì sotto, non solo simbolicamente. Tutto sarebbe stato diverso. Nel modo di vivere. Di far politica. Di parlare.

New York riprese a funzionare quasi subito: ma dopo le cinque della sera, gli uffici di Manhattan chiudevano, le luci spente, i marciapiedi si riempivano di gente che correva alle fermate dei bus, a quelle della metropolitana, alla Grand Station che si affollava di commuters. La gente tornava più in fretta che poteva a casa e lì si rintanava. Un’ora dopo, Manhattan sembrava il deserto. Colpiva il silenzio: come in quei film sul Day After.

Si diffondevano paura, insicurezza, vendetta. Radici di un incendio che oggi vediamo rosseggiare un poco ovunque

Sentivi piccoli rumori che prima dell’11 settembre nemmeno ci badavi. Gli sparuti passanti che ancora incrociavi per strada ti guardavano con sospetto e diffidenza. Si diffondevano alcuni sentimenti che sarebbero diventati devastanti: la paura, l’insicurezza, la vendetta. Radici di un incendio che oggi vediamo rosseggiare un poco ovunque, alimentato dalla crisi economica, da quella dei migranti, da quella delle grandi istituzioni, come l’Unione Europea. Un incendio chiamato populismo.

Dopo l’11 settembre, fece irruzione nel lessico globale del discorso strategico contemporaneo la parola “terrorismo”. E la guerra “locale”, motivata per contrastare il terrorismo e le sue centrali, divenne una situazione quotidiana. Nacque così l’ipocrita formula del conflitto “asimmetrico”: l’Occidente e il suo nemico. Oggi, contro il Califfato sono schierati più o meno direttamente sessanta Paesi, e non sempre le alleanze vanno a buon fine: i membri della coalizione preferiscono delegare ad altri la guerra sul terreno. Anzi, in Siria la guerra è tante guerre, sullo sfondo del rinnovato ed insolubile conflitto tra Usa e Russia.

Lo stato di emergenza contro l’islamismo radicale e al-Qaeda comportò ingenti sforzi finanziari ed umani.Una pacchia per gli apparati militari industriali

Nel breve giro di qualche mese, dopo il colossale attentato dell’11 settembre, cambiarono i processi decisionali dei governi, a cominciare da quelli delle democrazie occidentali che ebbero la tendenza ad allargare la definizione di terrorismo, includendo ogni azione di contestazione e rimettendo così la questione della loro legittimità. Senza che ce ne rendessimo conto, tutta la nostra vita mutò ritmi e abitudini. Lo stato di emergenza contro l’islamismo radicale e la nebulosa di al-Qaeda comportò ingenti sforzi finanziari ed umani. I bilanci della Difesa avevano la priorità: una pacchia per gli apparati militari industriali. Infatti, il commercio mondiale delle armi dal 2001 ad oggi è triplicato.

Ci furono altre conseguenze, in questi quindici anni. Per esempio, un’involuzione sul fronte delle libertà fondamentali e su quello dello Stato di diritto, a cominciare dal Patriot Act statunitense, il “buco nero”giuridico che riguarda i detenuti di Guantanamo, o i ricorsi alla tortura in Afganistan, in Siria, in Libia. L’intervento degli americani e dei loro alleati in Iraq, nel 2003, fu l’inizio di una concatenazione drammatica ed irreversibile di conflitti che hanno reso ancora più instabile – rispetto a prima del 2001 – non solo il Medio Oriente, dall’Afghanistan al Mediterraneo, ma anche il Nord Africa, scosso dalle illusioni delle “primavere arabe”, l’eliminazione di Gheddafi, la spaventosa guerra civile siriana, e, in Europa, il ritorno alla politica imperialista da parte di Mosca, con un preludio (2008) contro la Georgia, e un’ouverture mascherata di secessionismo in Ucraina (Donbass e Crimea). Senza dimenticare un altro inquietante ritorno, quello della Guerra Fredda, con contorno di sanzioni economiche nei confronti della Russia, le pretese cinesi su alcune isole nel Mar della Cina che sono l’esile pretesto per giustificare la creazione di una sua sfera d’influenza in Asia.

Da allora c’è stato un altro inquietante ritorno: quello della Guerra Fredda

In soldoni, l’America ha perso terreno in Medio Oriente, dove invece è cresciuta la Russia, come prova l’ennesimo tentativo di accordo, raggiunto a Ginevra sabato 10 settembre tra il segretario di Stato Usa, Kerry, e lo scafato ministro degli Esteri russo Lavrov, per una tregua in Siria. Accordo, peraltro già accompagnato dallo scetticismo della maggior parte dei protagonisti, ossia i movimenti di opposizione che combattono il regime di Assad (appoggiato da Russia ed Iran). Inoltre, il Pentagono non ha mostrato entusiasmo per il piano ginevrino, per mancanza di fiducia nei confronti della Federazione russa. A rendere più complicato il puzzle mediorientale, rispetto al 2001, è poi la posizione della Turchia. Erdogan ha raggiunto coi russi un accordo, per colpire le postazioni curdo-siriane (che operano sia contro l’Isis, sia contro il regime di Damasco).

Ad accrescere il caos, c’è il dissidio tra l’Arabia Saudita e l’Iran, ormai sul filo del rasoio. Che si combattono per procura in Yemen. Un’altra sporca guerra che si è aggiunta in questo puzzle mediorientale. Il paese arabo più ricco che martirizza quello più povero, dicono i diplomatici europei, spettatori impotenti. La guerra dura diciassette mesi, appena interrotta da un tentativo di negoziati lo scorso luglio. Ecco, lo Yemen è un concentrato del peggio post-11 settembre: su 24 milioni di abitanti, 14 sono minacciati di malnutrizione grave, centinaia di migliaia di bambini sono alla fame. Tre milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro abitazioni. Crimini di guerra, distruzioni civili e culturali, bombardamenti indiscriminati, e al-Qaeda che raccatta volontari. Due ex presidenti yemeniti, un tempo alleati nello stesso partito, si fronteggiano. Per sintetizzare, Abo Rabbo Mansur sale alla presidenza nel febbraio 2012, quando la primavera araba contagia lo Yemen e caccia Ali Abdallah Saleh, al potere dal 1978.

Ad accrescere il caos, c’è il dissidio tra l’Arabia Saudita e l’Iran, ormai sul filo del rasoio. Che si combattono per procura in Yemen

Che fa Saleh? Fomenta la ribellione delle tribù huthiste (un terzo della popolazione, sciite) che riprendono la capitale Sanaa nel marzo del 2015. Il che scatena l’intervento dell’Arabia Saudita (sunnita), ossessionata dall’ascesa dell’Iran quale potenza regionale e sciita. I sauditi cambiano politica: non si accontentano più di “contenere” le velleità della Repubblica Islamica. Vogliono respingerla. La Casa Bianca lascia fare, Obama accende il semaforo verde. Nel frattempo, Teheran si accorda sul nucleare, e i sauditi ci vedono “un tradimento” dell’alleato Usa. Per rassicurarli, Obama garantisce logistica e rifornimenti (compreso la consegna di armi per un miliardo di dollari, prevista nelle prossime settimane).

Il caso Yemen è cruciale perché è il meno conosciuto, a livello mediatico, in Europa. Ma è anche il più emblematico: spiega come gli Stati Uniti rischino la “somalizzazione” nello Yemen. Il timore è che lo Yemen si trasformi in un nuovo “paradiso” jihadista. Mentre attorno, è l’inferno di un mondo geopoliticamente impazzito. In preda ai giochi d’azzardo più imprevedibili. Come l’ultima esplosione atomica di Kim Jong-un, il dittatore nordocoreano. Dieci chilotoni che hanno provocato un sisma di magnitudo 5,3. Un modo provocatorio ed insolente per commemorare il quindicesimo anniversario dell’11 settembre. Un brutto segnale.

L’idea della Superpotenza globale unica balenata a Washington è svanita travolta da una realtà impietosa: Mosca vuole recuperare il suo status di superpotenza

Ci avvisa che nuove forze sono scese in campo, che l’idea della Superpotenza globale unica balenata a Washington, dopo il crollo dell’Urss, è svanita travolta dalla cronaca, e da una realtà impietosa: Mosca vuole recuperare il suo status di superpotenza; la Cina è sempre più vicina e comincia a ragionare come terzo incomodo. I membri dell’Unione Europea continuano a bisticciare, così contano sempre di meno. Il Medio Oriente è un guazzabuglio di conflitti, dove le grandi potenze si esercitano e si confrontano, per il controllo del petrolio e il suo smistamento, ma anche per ridefinire le aree di influenza, soprattutto in Europa. Terrorismo islamico e migranti (quindi frontiere insicure) diventano strumento di pressione e destabilizzazione, ma anche il ricatto energetico ha un ruolo ben preciso. L’America, tramite Nato, gonfia i muscoli, e lascia che si propaghino altri incendi. La guerra è pericolosa anche a parole (vedi Arabia-Iran). Più che di lotta continua, questo è il tempo di guerra continua. E di terrorismo sempre più spavaldo, sempre più diffuso, poiché è flessibile, mutevole, imprevedibile. L’eredità maledetta dell’11 settembre.

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