di Claudia De Martino, ricercatrice Unimed

Le elezioni amministrative in programma per l’8 ottobre in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono state ufficialmente sospese dalla Commissione elettorale centrale di Ramallah. Nonostante tali elezioni locali fossero molto attese da giovani e vecchi e considerate un preludio a quelle nazionali e un test democratico sulla popolarità di al-Fatah, il partito al governo, anche questa volta le attese dei Palestinesi sono rimaste disattese.

Le ultime elezioni municipali si erano tenute nel 2012, ma solo in alcune città della Cisgiordania ed avevano incontrato il boicottaggio di Hamas, che questa volta aveva, al contrario, già dichiarato la sua intenzione di partecipare, disposto anche a presentarsi in alcune città come Hebron senza esibire il logo del partito ma con candidati formalmente indipendenti, pur di non rischiare che le elezioni venissero invalidate da parte di Israele. Alcuni partiti minori – come i Comitati di resistenza popolare a Gaza e il partito Hizb-al-Tahrir (la libertà) avevano annunciato il boicottaggio delle elezioni in quanto “non è possibile tenere elezioni in un Paese che non è libero”, ma si era pur sempre trattato di voci marginali. L’attesa da parte della popolazione restava infatti alta.

Il motivo addotto per la sospensione di queste elezioni – il rispetto della pace e della tranquillità pubblica fino al termine della Festa del Sacrificio (Eid-al-Adha)- da parte dell’Alto consiglio giudiziario ha sorpreso molti. La Commissione elettorale centrale aveva posto il termine del 29 agosto per la presentazione delle candidature e la procedura aveva visto una grande effervescenza di partiti e liste iscriversi al registro elettorale. Contemporaneamente, molti cittadini palestinesi erano affluiti e avevano completato la registrazione nelle liste elettorali: un indiscusso segnale di partecipazione e vivacità democratica. Si prevedeva la votazione di poco meno di 2 milioni di Palestinesi, con un picco di partecipazione nella striscia di Gaza (90% degli aventi diritto), su circa 4 milioni di cittadini dei territori occupati (gli Arabo-israeliani, che ammontano a circa 1.800.000 persone, votano infatti in Israele).

La campagna elettorale avrebbe dovuto aver inizio a fine settembre, nonostante durante l’estate si fossero già verificati numerosi episodi di violenza dall’una all’altra parte, con Fatah e Hamas – i due principali partiti – che si erano scambiati intimidazioni e minacce. Nei Territori da anni è, infatti, in corso una gravissima crisi politica non solo tra i due maggiori partiti, ma anche all’interno degli stessi. Il Presidente Mahmud Abbas, altrimenti noto come Abu Mazen, è sempre più impopolare ed è sempre al centro di nuovi scandali finanziari (si veda wikileaks) e politici: non ha certamente aiutato un’inchiesta diffusa recentemente dal primo canale televisivo della televisione di stato israeliana secondo cui durante la Guerra Fredda Abbas aveva lavorato come agente del KGB, i servizi segreti dell’Unione Sovietica. Altrettanto impopolare è il Primo ministro Rami Hamdallah, accusato di essere un’eminenza grigia che tiene in pugno il Paese ed il dissenso crescente all’interno dello stesso partito al-Fatah attraverso un utilizzo spregiudicato delle forze di sicurezza, che alcuni giorni avrebbero ucciso una figura di spicco della stessa al-Fatah –Ahmed Abu al-Ezz Halawa, ex capo delle Brigate al-Aqsa ed in passato responsabile proprio della fallita riconciliazione tra Hamas e Fatah.

Ed è proprio all’origine della diatriba delle due fazioni che va ricercata la ragione della sospensione delle amministrative. Dal 2006 i rapporti tra Hamas e Fatah hanno alternato momenti di indifferenza a periodi di guerra aperta, come nel conflitto armato per la conquista della Striscia di Gaza avvenuto tra il 2006 e il 2007 a seguito delle elezioni legislative che videro Hamas guadagnarsi il 44% dei voti (di cui la maggior parte nella Striscia di Gaza) e al-Fatah il 41% (i cui voti si concentrarono perlopiù in Cisgiordania), ma che sancirono la divisione della Palestina e la vittoria di al-Fatah in Cisgiordania grazie al boicottaggio di Hamas da parte della comunità internazionale. Da allora la divisione ha prevalso, seppure con tentativi di ricucire il dialogo prima avviati dal Cairo e poi autonomamente dalla base palestinese nel 2011, sull’onda delle domande di democratizzazione sprigionate dalle Primavere arabe.

Anche quest’anno, però, la via alle elezioni sembra impervia e per il momento non si terranno. Molti sondaggi sostengono che, qualora i Palestinesi andassero al voto, Hamas riconfermerebbe non solo la sua vittoria nella Striscia, ma si affermerebbe anche in Cisgiordania. L’Alta Corte si pronuncerà nuovamente il 21 settembre, ma sono in molti a pensare che la scelta sarà piuttosto quella di una sospensione definitiva.

La divisione politica a cui continuiamo ad assistere aggiunta allo stallo alimenterà ulteriormente il malcontento tra i Palestinesi, molti dei quali – nonostante attendessero con impazienza le elezioni – non si sarebbero recati alle urne perché spaventati dalla recente escalation di violenza e intimidazioni tra i due partiti.

In definitiva, si può dire che lo stallo politico vigente rispecchia esattamente il lacerato tessuto sociale di una delle società più frammentate e corrotte al mondo, sottoposta da quasi 50 anni all’occupazione straniera.

Il grande assente dal dibattito elettorale al momento sembra proprio essere Israele, normalmente fortemente ingerente nella politica dei Territori. Se da un lato, infatti, è preoccupato dal fatto che Hamas, con cui è in stato di guerra aperta (estate 2014) e fredda, possa acquistare popolarità e legittimità grazie alle elezioni, sembra ormai più preoccupato da Libano e crescente sciita piuttosto che dallo storico nemico interno, ormai neutralizzato ed impotente anche ai suoi occhi.

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