Coppia mirabilis. Sono raggianti ed emozionati Martina Parenti & Massimo D’Anolfi, i primi italiani a sfidare il concorso di Venezia 2016. Sposati professionalmente e privatamente, portano al Lido il loro sesto lungometraggio, il documentario Spira Mirabilis. Già, perché il Leone d’oro a Sacro GRA di Rosi ha spiegato il tappeto rosso anche al cinema documentario, quell’oggetto “una volta relegato alle ombre e finalmente divenuto degno della luce del sole, ovvero della sezione principale” esulta D’Anolfi. “Il paradosso è che nessuno comprende quanto il documentario sia un atto di violenza, perché entra nella vita degli altri. Chi accetta di partecipare ci fa un dono immenso e in cambio noi cineasti cerchiamo di offrire dignità e bellezza a chi si dona e questo vale per le persone, per la natura e persino per le statue”.

Come artigiani di una volta (“noi lavoriamo da soli, ci piace così”) Parenti e D’Anolfi hanno confezionato un lavoro che indaga sull’aspirazione all’immortalità attraverso la metafora matematica della spirale meravigliosa.  Ed esattamente come una spirale fanno ruotare cinque storie attorno a un nucleo di senso che va a compiersi sul finale del racconto. Le storie corrispondono ai quattro elementi presenti in natura più quello “soprannaturale” dell’etere: rituali della comunità dei nativi americani Dakota (Fuoco), le statue del Duomo di Milano sottoposte ad eterno restauro (Terra), la messa a punto di uno speciale strumento musicale in metallo da parte di due musicisti sperimentali svizzeri (Aria), gli studi di un biologo giapponese sulla medusa immortale (Acqua) ed infine la narrazione de L’Immortale di Borges recitata da Marina Vlady. Imponente visivamente e sonoricamente, il film soffre tuttavia di un po’ l’eccesso di ambizione all’interno di un dispositivo profondamente cerebrale. Ciò non impedisce il plauso al lavoro profuso prima e durante il processo creativo, processo che è a tutti gli effetti uno dei protagonisti dell’opera. Spiega infatti D’Anolfi che “a dirla tutta, ci sono più mani che uomini nel nostro film. Noi non lo sentiamo ostico ma estremamente semplice, serve entrare nella spira non solo con la testa ma anche col cuore”. L’oggetto del racconto, di fatto, è “l’aspirazione di immortalità attraverso il meglio che l’umanità ha da offrire e lasciare in eredità ai posteri”, aggiunge Martina Parenti che non trascura di ricordare l’importanza che ha per loro “l’etica del lavoro artigianale, che ha il diritto e il dovere di sopravvivere accanto a quello industriale”.

Altrettanto coraggioso e forse più riuscito, è un altro atteso film italiano oggi di passaggio al Lido e che la vox populi prefestivaliera voleva in concorso e invece è terminato a competere ai Venice Days – Giornate degli Autori. Si tratta di Indivisibili di Edoardo De Angelis. Ambientato nella Castelvolturno contemporanea, sviluppa un momento della vita di due gemelle siamesi diciottenni, cantanti popolari di matrimoni e cerimonie locali. In Mostra per la seconda volta dopo Perez (fuori concorso nel 2014) il regista campano è giunto al suo terzo lungometraggio, confermando un talento che ben mescola poesia e realismo. “Castelvolturno è un luogo dove la regola è quella di non avere regole. Un luogo splendido e tragico insieme, dove la gente sceglie di rimanere, si sente attaccata anzi “indivisibile” proprio come le due gemelle siamesi”. Viola e Dasy (rese dalle gemelle Angela e Marianna Fontana, realmente cantanti nella vita) sono simbiotiche anche nello spirito, e mai immaginano si potrebbero separare finché un medico giunto in Paese offre loro la lieta novella, “è possibile separarvi“. Inizia per loro un sogno di indipendenza ostacolato però dal padre padrone e dal parroco: “qua la gente normale muore di fame”, meglio restare fenomeni da baraccone e – appunto – portare avanti la baracca. Dolci e positive, le ragazze sono circondate dalla meschinità di un territorio che trasuda di ignoranza, superstizione ed emarginalità. Dall’incipit straordinario che assomiglia al cinema di Matteo Garrone, Indivisibili incide e colpisce nella sua imperfezione di eccessi: un’eccedenza barocca, fragorosa e musicale coerente al contesto che va a raccontare.

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