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Freddie Mercury, settant’anni fa nasceva l’ultimo re del rock. E il trono è rimasto vacante

Impossibile gestire un lascito così ingombrante: sono anni che i Queen non trovano la quadra per il biopic su Mercury: hanno già silurato, per la parte, Sacha Baron Cohen, che poi ha diffuso dichiarazioni al curaro "sulla band che vuole più risalto nel plot rispetto al frontman". Il nuovo candidato al ruolo è Ben Whishaw, ben visto dalla comunità gay dopo il suo coming out. Ma anche qui. Freddie ostentava il proprio lato omosessuale, però non disdegnava le donne

di F. Q.

La tombola. E poi, a mezzanotte, un brindisi alla sua memoria. Nel mezzo, il concerto dei Queen Extravaganza, la cover band ufficiale. Non è stato esattamente un party di compleanno trasgressivo, ma i fans che hanno partecipato all’evento al Casino di Montreux per celebrare i settant’anni di Freddie Mercury non vedevano l’ora di tentare la cinquina su cartelle a prezzo maggiorato: hanno vinto memorabilia autografati e hanno contribuito alle finanze del Phoenix Trust, il fondo per la lotta all’Aids creato a nome del cantante.

Dopo la morte, il 24 novembre 1991, ad appena 24 ore dall’annuncio choc sulle sue “gravi condizioni” le ceneri furono sparse sul Lago Lemano: proprio lì, a Montreux, Mercury aveva trovato il buen retiro per sfidare la malattia, e sulla promenade anche stavolta non mancheranno i pellegrinaggi ai piedi della sua statua. Nel mondo ne sono state erette più di cento: un’altra spicca sul frontone del Dominion Theatre, a Londra, storica sede del musical “We Will Rock You“. Che altro, per festeggiare il caro estinto? “Messenger of the Gods”, nuova collezione di vinili colorati dei singoli della carriera solista, ma un’analoga raccolta era già uscita per i sessant’anni. E i “Freddie for a day” agli Hard Rock Café: i camerieri prenderanno ordinazioni vestiti negli outfit cari all’artista, baffetti posticci in vendita a due euro.

Tutto sommato, l’avvenimento più evocativo è stata la collocazione, giorni fa, di una prestigiosa “Targa Blu” sulla facciata della modesta casa londinese in cui la famiglia Bulsara andò a insediarsi nel 1964 fuggendo dalla rivoluzione socialista di Zanzibar, l’isola dove Farrokh-Freddie era nato il 5 settembre 1946, e dove sarebbe stato colpito da una fatwa post-mortem per lo stile di vita che rinnegava l’Islam: peccato che lui fosse zoroastriano. Curiosa, la sincronicità del mondo: senza la sollevazione di 52 anni fa non sarebbe nata la Tanzania, e il rock non avrebbe avuto i Queen. Il loro “Greatest Hits” resta l’album più venduto di sempre in Inghilterra (meglio di Abba e Beatles), mentre la perfomance al Live Aid del 13 luglio 1985 spaccò i cuori del pianeta in diretta tv: venti minuti in cui Freddie ebbe davvero “sul palmo della mano tutto il pubblico” come spiegava Bowie, e non solo quello sterminato che batteva ritualmente le mani per “Radio Gaga” sul prato del vecchio Wembley. Che resta, di quel trionfo del potere laico – giocosamente tirannico – di una singola star? Poco, in verità: dal giorno dell’addio a Mercury il rock e il pop hanno smesso di parlarsi, separandosi per sempre e infilandosi in derive insulse. Nessuno ha trovato più il punto di intersezione tra grandeur creativa e minimalismo, nella certezza che oggi tanti emulatori possano essere kitsch ma non genialmente glam, e che l’elettrodance mutuata dai Queen (in combutta con Moroder) raramente si sposerà con un poderoso riff di chitarra hard-heavy come quelli che venivano in mente a Brian May, l’astrofisico capace di scagliare saette dalla sua Red Devil. Provate a mischiare – che so – i diversi talenti di Mika e dei Foo Fighters e sentirete che pasticcio: altro che “Bohemian Rhapsody“. Sì, resta la suggestione degli hits trasformati in sigle, di “We are the Champions” buona per alzare ogni coppa, o di “We will rock you” diventata martello elettorale in inquietanti rally.

I Queen stanno ancora provando a diffidare Trump dall’usare le loro canzoni nei comizi, ma quello figurarsi. D’altra parte, la stessa band è riuscita sempre a fare il surf su una sorta di ambiguità apolitica. Spesso in prima linea per i benefit, ma nessuno dimentica la scelta di suonare, a suon di bigliettoni, nel Sudafrica pre-Mandela, gli applausi a Sun City, la città bianca emblema dell’apartheid. Accadeva nel 1984, anno in cui comparvero come superospiti pure a Sanremo: e tutti all’Ariston ricordano la gentilezza di Freddie. Oggi i Queen girano il mondo con un patetico show revivalista, un juke-box live in cui viene sottolineato che il vocalist a cottimo Adam Lambert “è bravo a non emulare Mercury”.

E chi potrebbe mai, con quel Convitato di Pietra? All’indomani della scomparsa furono avvicinati divi come George Michael o Robbie Williams. E perfino Zucchero, che ci pensò su per una notte e poi decise di non farsi stritolare nel confronto con un istrione dotato di un’estensione vocale da quattro ottave (con tanto di studi scientifici), come poi sarebbe accaduto al primo sostituto, l’ex Free Paul Rodgers. Impossibile gestire un lascito così ingombrante: sono anni che i Queen non trovano la quadra per il biopic su Mercury: hanno già silurato, per la parte, Sacha Baron Cohen, che poi ha diffuso dichiarazioni al curaro “sulla band che vuole più risalto nel plot rispetto al frontman”. Il nuovo candidato al ruolo è Ben Whishaw, ben visto dalla comunità gay dopo il suo coming out. Ma anche qui. Freddie ostentava il proprio lato omosessuale, però non disdegnava le donne: una parte cospicua della sua eredità la destinò all’ex fidanzata Mary Austin. Si mascherava da Regina, con corona, scettro ed ermellino. Ma era l’ultimo re del Rock, e il trono è rimasto vacante.

Di Stefano Mannucci

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