Ryanair vara un grande piano di sviluppo e di crescita in Italia, ma si tratta davvero di investimenti “gratuiti” per le casse pubbliche del nostro Paese? La  decisione del governo di Matteo Renzi di annullare l’incremento di € 2.50 della tassa municipale dal prossimo primo settembre e la modifica delle linee guida aeroportuali del ministro Graziano Delrio sono certamente le due scelte, che  hanno permesso di accelerare  i piani  di sviluppo di Ryanair, per il mercato italiano nel 2017, ma hanno di fatto spostato i costi dal mercato (i passeggeri) allo Stato. La cancellazione dell’aumento della tassa, che torna a 6,5 euro a passeggero, sarà infatti coperta nella legge di Stabilità e costerà 180 milioni su base annua. E quindi su tutti gli italiani anche coloro che non prendono l’aereo. Non solo, il previsto incremento di passeggeri derivante dall’apertura di 44 nuove rotte nazionali,  avrà un costo minimo di comarketing di 15 milioni annui  per le gestioni (per lo più pubbliche di enti locali) degli aeroporti minori. Gli investimenti di Ryanair costeranno dunque alla mano pubblica 195 milioni l’anno.

Dopo mezzo secolo di sovvenzioni ad Alitalia, non si vorrebbe ora che il governo ricominciasse con nuovi surrettizi aiuti a Ryanair. La compagnia irlandese  ha sempre fatto profitti e servizi di qualità sul mercato nazionale, senza bisogno dell’intervento pubblico. Ora non sembra proprio il caso di usare la foglia di fico della crescita del turismo italiano per giustificare prassi anticompetitive e discriminatorie rispetto alle altre compagnie aeree, che operano sul mercato nazionale. Con questa scelta il governo riesce in un capolavoro unico al mondo di spalmatura di una tassa per alimentare un ammortizzatore sociale d’oro impone una tassa di 6,5 euro ai passeggeri che s’imbarcano in Italia (gettito di  455 milioni l’anno), far pagare a tutti gli italiani con un provvedimento messo in legge di Stabilità la quota cancellata ai passeggeri di 2,5 euro pari a 180 milioni annui e a legalizzare veri e propri sussidi, che sono i contributi a passeggero in partenza chiamati comarketing. Suona molto strano che in un Paese con un grande mercato nazionale come il nostro ci sia ancora bisogno di sussidi al settore (compagnie e aeroporti) o forse gli scali sono troppi e le tentazioni al sussidio pubblico ancora troppo forti?

Dal 2008 i passeggeri in partenza, che prendono l’aereo in Italia, pagano una tassa d’imbarco aggiuntiva oltre a quelle che erano già in vigore per check-in, bagagli, sicurezza, raggi x, fuel surcarge, rumore e l’immancabile Iva. La tassa dal 1° gennaio 2016 è passata da 6,5 euro a 9, con un aumento di 2,5 euro. Chiamata tassa municipale, in realtà oltre i 2/3 degli incassi passano direttamente all’Inps, ad alimentare gli ammortizzatori sociali del settore del trasporto aereo. La tassa era nata con la prima crisi di Alitalia, per collocare gli enormi esuberi di piloti e assistenti di volo. Istituito otto anni fa dal governo di Silvio Berlusconi, il Fondo per la cassa integrazione extra lusso degli ex dipendenti di Alitalia e poche altre compagnie aeree non avrebbe dovuto  costare neppure un euro ai contribuenti, così assicurò il Cavaliere,  ma solo pochi spiccioli ai passeggeri aerei. Ne nacque una tassa aggiuntiva a quelle già esistenti che, all’inizio, era di un euro, poi salito a due, quindi a tre, e così via, fino ai 9 attuali.

La “gabella” si è rafforzata nel tempo coi i vari governi, che si sono succeduti sempre più assoggettati alla corporazione, che si articola attorno alla ex Alitalia. Cosi è vivo e vegeto il Fondo speciale trasporto aereo (Fsta) ) che ha assicurato e assicura una durata sproporzionata della Cassa integrazione guadagni (Cig), fino a 7 anni, e degli assegni mensili fino a 20mila euro. Incredibile nell’epoca del Job Act, del lavoro interinale e degli esodati. Primo caso nel mondo in cui gli ammortizzatori sociali sono pagati non in parti uguali dall’azienda, e dai lavoratori, per gestire gli ammortizzatori sociali, ma direttamente dai passeggeri. E’ come se quando si compra una casa, oltre alle tante tasse, se ne pagasse anche una per la Cassa integrazione degli addetti del settore.

Gli ignari passeggeri aerei quindi alimentano una tassa iniqua, priva di giustizia sociale fra lavoratori, visto che il resto degli addetti italiani, la cassa integrazione, se ce l’ha, percepisce 1.200 euro al mese e non gli viene alimentata dai consumatori finali delle attività di produzione di beni o di servizi che produce.  Questa tassa penalizza l’efficienza del settore aeroportuale già frammentato, intriso di politiche clientelari, protezioniste e corporative. Un settore che dovrebbe creare ricchezza invece ne disperde tanta. Fu Ryanair a chiudere gli scali di Pescara e Alghero per protestare contro. Timidamente protestò anche qualche altra compagnia aerea, esclusa l’Alitalia e la Meridiana, le maggiori beneficiarie. Quelle compagnie minacciarono il ritiro dagli scali italiani, nel febbraio scorso, se l’ulteriore aumento di 2,5 euro non fosse stato sospeso. Per l’Inps, fino a qualche mese fa, il Fondo aveva già spremuto ai passeggeri italiani 488 milioni di euro.

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