Le imprese italiane spremute come vecchie mucche, munte fino alla morte. Le casse saccheggiate dagli azionisti, che si sono distribuiti gli utili anziché lasciarli nell’impresa. Le società che, da quando è venuto meno l’intervento diretto dello Stato in economia, hanno smesso di investire. Lasciando invecchiare le fabbriche e tagliando gli organici. E Confindustria che chiede di tutto e di più al governo, ma senza indicare una priorità. E’ il quadro desolante dell’industria italiana che Riccardo Gallo, professore di Economia applicata all’Università La Sapienza, traccia nel saggio Torniamo a industriarci (Guida editori). Nel volume, il docente analizza i numeri della parabola del settore dalla fine degli anni Ottanta, definita senza mezzi termini il declino industriale italiano, ne sviscera le cause e avverte che siamo di fronte a una sorta di “ultima chiamata per il Paese”.

Per dare una misura di quella che chiama deindustrializzazione dell’Italia, il professore usa come metro il contenuto industriale, cioè il rapporto tra valore aggiunto e fatturato netto. Tra 1989 e 2014, questo dato è crollato dal 29% al 16%, con una lieve ripresa di un punto percentuale nel 2015. La ricerca è costruita a partire dai numeri del data base Mediobanca sulle imprese industriali medio grandi. “Nell’ultimo quarto di secolo – spiega Gallo – l’industria italiana complessivamente ha perso contenuto, il suo valore aggiunto è diminuito rispetto al fatturato molto più della media europea, si è quasi dimezzato, diciamo che l’industria si è un po’ commercializzata, compra e rivende mettendoci non molto di suo”.

Le società industriali non solo hanno perso contenuto, ma hanno potuto contare su fabbriche lasciate sempre più invecchiare dagli imprenditori. “Nell’ultimo quarto di secolo, l’età è raddoppiata, da poco più di 9 anni nel 1992 a poco meno di 19 anni nel 2014 – segnala il professore – Il fatturato è aumentato nel tempo comunque, anche senza un pieno rinnovo degli impianti, solo perché quelli vecchi sono stati mantenuti in attività, gli è stato tirato il collo, anche quando sarebbero dovuti essere chiusi”.

Eppure, anziché investire per rinnovare le fabbriche e rilanciare le imprese, i soci hanno preferito spartirsi la cassa. “Le imprese hanno munto mucche vecchie e, fino alla loro morte, hanno tratto latte proficuo – spiega Gallo – Gli azionisti delle società industriali italiane si sono distribuiti nell’ultimo quarto di secolo complessivamente il 110% degli utili netti di esercizio, intaccando così le riserve. In altri termini, hanno saccheggiato le loro stesse imprese”.

A fare le spese di questa situazione è stato il personale del settore industria. Dal 1989 al 2014, infatti, le imprese industriali medio grandi hanno perso un terzo dell’organico (il 33,5%) che avevano all’inizio del processo di deindustrializzazione, passando da 1,3 milioni a 914mila dipendenti. “Di fronte all’impoverimento del loro contenuto industriale – osserva l’economista – per cercare di mantenere una certa produttività del lavoro, le imprese hanno ridotto l’organico e lo hanno fatto in tutti i modi possibili”.

In questo contesto, la situazione finanziaria delle industrie italiane è però rimasta solida. Il professore ricorda che, dal 1992 a oggi, l’autonomia finanziaria delle imprese italiane sia migliorata, così come l’equilibrio finanziario e la liquidità, mentre l’indebitamento si è ridotto. “La causa di questo rafforzamento generale va ricercata nel surplus di finanza endogena non reinvestito – spiega il docente – Infatti, le imprese preferiscono sempre impiegare il surplus per ridurre i debiti onerosi verso terzi”. Da qui, la conclusione: “La morale della favola è che il collo della bottiglia che frena gli investimenti in Italia ha natura non finanziaria, cioè non dipende dalla scarsità di mezzi finanziari, e va cercato altrove”.

Dunque dove cercare? Gallo individua il 1998 come “l’anno al tempo stesso di inizio della caduta degli investimenti delle imprese industriali, di inizio del deterioramento della competitività del Paese, di raggiungimento della massima incertezza nella politica economica e istituzionale”. Questa incertezza, secondo il professore è legata al fatto che “nell’arco degli anni Novanta furono smantellati numerosi, direi tutti, strumenti di intervento pubblico nell’economia che erano stati istituiti durante il fascismo”. Nel 1992 il governo pose fine alle partecipazioni statali, trasformando gli enti in società per azioni. Negli anni successivi, chiuse la stagione del credito industriale e abolì il Cipi, Comitato interministeriale per coordinamento della politica industriale. In poche parole, una volta conclusa la stagione dell’intervento diretto dello Stato in economia, è cominciata la crisi degli investimenti.

Di fronte a un quadro non certo confortante, l’autore del saggio chiama in causa Confindustria. L’associazione degli imprenditori, secondo il docente, “ha sempre chiesto al governo cose giuste ma, per così dire, ha chiesto di tutto e di più”, e soprattutto “senza la benché minima autocritica, senza un ordine di priorità, senza indicare il bandolo della matassa, con l’implicita accettazione supina che il governo facesse poco di tutto, cioè alla fine nulla”. Da qui, l’appello al nuovo presidente Vincenzo Boccia a indicare chiaramente quale sia l’esigenza prioritaria da vedere soddisfatta per poi tornare a investire. “Questa è una sorta di ultima chiamata per Confindustria – conclude Gallo – ma lo è anche per il Paese”.

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