BUDAPEST – Vista dal 360bar, un locale alla moda sul tetto di un palazzo del centro, Budapest sembra una città come tante altre: sarà per colpa dei cocktail serviti nei barattoli di vetro come omologante tendenza vuole, ma sembra di stare a Milano. Vista da giù, al livello della strada, la capitale ungherese assume tutt’altro contorno e recupera la propria identità. Quella di Ferragosto, qui è una settimana particolare. Sull’isola di Obuda, infatti, ha riaperto i battenti, come ogni anno, lo Sziget Festival, uno degli happening musicali più importanti d’Europa, forse secondo solo al britannico Glastonbury.

Entrare nell’area del festival per la prima volta può essere destabilizzante. Si viene subito travolti da un’energia senza precedenti che sgorga direttamente dalle centinaia di migliaia (lo scorso anno furono 441.000) di persone che affollano l’isola. È una umanità varia (e a volte avariata, bisogna ammetterlo) che in questi sette giorni di musica, socialità e bagordi investe larga parte delle proprie energie. È intrattenimento purissimo, ovviamente, ma forse c’è qualcosa d’altro, nella fiumana che si sposta da un palco all’altro dell’enorme area destinata ai concerti. C’è, innanzitutto, un rendez-vous ormai irrinunciabili per moltissimi giovani europei, che campeggiano alla bell’e meglio nelle loro tende pagate poche decine di euro da Decathlon, che bevono tanto e, inutile negarlo, ci danno dentro anche in quanto a droghe. Ma lo Sziget (che in ungherese vuol dire proprio “isola”) è davvero l’isola della libertà, come la definiscono gli stessi organizzatori nei manifesti ufficiali. Una libertà che si percepisce a ogni passo e soprattutto nel concept stesso del festival.

Lo Sziget Festival è sempre stato un mix di riferimento ultrapop e impegno, e lo è ancora di più quest’anno, visto che gli organizzatori hanno deciso di sfruttare un anniversario molto sentito da queste parti: i sessant’anni dalla rivoluzione sfortunata del 1956, dal tentativo di Imre Nagy di costruire un socialismo democratico lontano dalle grinfie dell’Unione Sovietica orfana da pochi anni di Jozif Stalin. E il volto baffuto di Nagy campeggia fiero sulle pareti di molti stand, magari accanto a Hello Kitty o a qualche altra icona che all’apparenza non potrebbe essere più distante dal leader del Partito Socialista Operaio Ungherese giustiziato nel giugno 1958. Invece ha senso, questo mix alto e basso al tempo testo, tenuto insieme soprattutto dall’anelito occidentale e democratico della gioventù ungherese ed europea. E fa ancora più impressione se pensiamo all’Ungheria odierna, al governo Orban e alle sue forzature autoritarie, alla posizione intransigente sul tema dei migranti, al continuo braccio di ferro con l’Unione europea e alla rinnovata amicizia con Mosca e Vladimir Putin.

Lo Sziget Festival, però, gode di una sorta di status speciale, di una extraterritorialità gioiosa e anarchica: all’ingresso, ad esempio, ad ogni spettatore viene consegnato un passaporto targato Sziget, un documento “ufficiale” dell’appartenenza a uno stato transnazionale e postideologico, a una Utopia che sembra lontana anni luce, in questi tempi balordi, ed eppure lì, in mezzo al Danubio, pare prendere corpo, diventare reale. Dura solo sette giorni, questo paradiso sospeso sull’acqua, ma sicuramente lascia il segno. E chi pensa che centinaia di migliaia di giovani arrivino dall’Olanda, dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna o dall’Italia solo per “sballarsi” o per ascoltare i propri beniamini si sbaglia di grosso.

Lo Sziget è un’esperienza umana e sociale, prima che ancora che artistica o “chimica”. È la gioventù (tutta, anche la parte meno virtuosa) che si dà appuntamento in un luogo/non-luogo per vivere un sogno. Come ogni sogno, ovviamente, è destinato a finire in breve tempo e a lasciare spazio di nuovo alla quotidianità, alla mancanza di lavoro, alla crisi economica, alla paura del terrorismo internazionale, alle forzature autoritarie dei governi nazionali, allo smarrimento dell’Europa. Ma nel frattempo, fino a quando quel passaporto fasullo consegnato simbolicamente all’ingresso vale ancora qualcosa, quel sogno non può essere turbato da niente e da nessuno. E nella scelta del passaporto al posto della classica guida al festival, del claim “isola della libertà”, c’è anche una risposta agli egoismi nazionali, una presa di posizione chiara anche sugli accadimenti recenti in tema di migrazioni. Perché i giovani, come già in epoche passate, si dimostrano migliori delle classi dirigenti. Era successo anche nel 1956 per le vie di Budapest, per esempio. Poi però i giovani crescono e qualcosa spesso cambia. Purtroppo.

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