Qualche settimana fa ho usato per la prima volta Airbnb. Un appartamento a Roma, carino, pulito, in zona centrale, un padrone di casa efficiente e cordiale. Ho prenotato e pagato in meno di 2 minuti, con una applicazione intuitiva e veloce. Il tutto a una frazione del costo di una stanza d’albergo nella stessa zona. A Cagliari o a Seul, servizi come Airbnb, rendono la vita più semplice e sono talmente comodi che gli utenti non sanno quasi più farne a meno.

E secondo una ricerca condotta a marzo dalla Commissione europea oltre un terzo degli utenti attivi si trasforma, almeno saltuariamente, in fornitore di servizi. E’ il circolo virtuoso della sharing economy: cittadini, associazioni e piccole imprese che, con l’aiuto della rete, gestiscono servizi e producono beni. Dai luoghi per il coworking ai servizi di assistenza alla persona, dal catering locale ai prodotti finanziari p2p. Un giro d’affari che i ricercatori dell’Università di Pavia hanno stimato a 3,5 miliardi di euro nel 2015, e che tra 10 anni potrebbe arrivare a valere fino a 25 miliardi.

A inizio giugno la Commissione europea ha pubblicato le linee guida del settore, mettendo in guardia i governi contro barriere e ostacoli. E in Italia l’Intergruppo  parlamentare sull’innovazione prepara una proposta di legge per promuovere l’economia della condivisione, che, in pieno spirito collaborativo, è stata oggetto di una consultazione pubblica. Eppure questa rivoluzione dei consumi che molte città chiaramente incoraggiano inizia a preoccupare. Il potenziale economico della sharing economy non va naturalmente soffocato ma è altrettanto importante mitigare alcuni squilibri che, prevedibilmente, stanno emergendo.

Proprio il caso di Airbnb sembra essere diventato emblematico del dibattito sul potenziale economico e i rischi legati alla sharing economy. Complice l’aumento della domanda turistica, e l’opportunità di un guadagno relativamente semplice, le offerte di strutture crescono esponenzialmente. Solo a Roma sono oltre 12mila gli alloggi pubblicizzati sulla piattaforma.

Sulle questioni più urgenti – dai problemi legati alla sicurezza, a quelli legati alla tassazione, dal diritto del lavoro fino all’antitrust –  sembra esserci consenso: servono nuove norme e e standard, quindi le amministrazioni un po’ in tutto il mondo si stanno muovendo velocemente. In Italia il dialogo tra Airbnb e i Comuni sembra essere proficuo: a Milano è stato siglato un accordo di collaborazione per i grandi eventi, la realizzazione di studi e ricerche di mercato, e regolamentazione di aspetti economico-fiscali. A Firenze un accordo simile prevede collaborazione sul piano dell’informazione, la registrazione degli alloggi e il pagamento dell’imposta di soggiorno. E il mese scorso Airbnb ha firmato un accordo con la Prefettura di Roma che garantisce la registrazione degli ospiti e la comunicazione alla questura dei loro dati.

Le implicazioni di lungo periodo tuttavia potrebbero essere molto più complesse. La frammentazione e dinamicità del settore rendono il lavoro dei ricercatori difficile, ma i dati sembrano indicare che spesso i benefici economici e di rigenerazione urbana sono concentrati in quartieri specifici, mentre la potenziale distorsione sul mercato immobiliare potrebbe estendersi a tutta la città.

Il problema si fa particolarmente spinoso quando i privati acquistano immobili proprio per offrirli per soggiorni più o meno brevi attraverso piattaforme come Airbnb e smettono di prendere in considerazione i normali contratti di locazione di lungo periodo. In alcuni casi parliamo di società che controllano decine se non centinaia di strutture. Questo fenomeno ha chiaramente il potenziale di distorcere interi segmenti del mercato immobiliare.

Il resto della storia non è difficile da ipotizzare: il numero delle residenze disponibili diminuisce, il prezzo degli affitti sale, e le comunità locali devono lentamente spostarsi. I quartieri, spesso quelli centrali o storici, in pochi anni perdono identità e autenticità e diventano un pittoresco diversivo per visitatori di passaggio. La domanda di immobili si trasferisce poi su quartieri più periferici dove i prezzi salgono e così via. E’ gentrificazione in tempo reale. Che lentamente potrebbe snaturare il tessuto urbano di città intere. Succede a San Francisco, città natale di Airb&b, dove per $2000 al mese è difficile trovare un monolocale.

Airb&b si è sempre dimostrata aperta a siglare accordi per limitare rischi di sicurezza e evasione fiscale, ma nega categoricamente che il servizio possa avere un impatto negativo sul tessuto urbano delle città. Infatti ha recentemente lanciato una campagna capillare per spiegare che il servizio aiuta a mitigare gli effetti della gentrificazione, supportando famiglie e comunità locali.

La questione è controversa e forse proprio per questo la società californiana ha annunciato due settimane fa che un gruppo di ex sindaci, di cui fa parte anche Francesco Rutelli, consiglierà Airbnb su come negoziare con i Comuni. Intanto a San Francisco le autorità cittadine sono intervenute con regole stringenti – prontamente contestate da Airb&b in tribunale – sulla registrazione degli alloggi e la frequenza con la quale possono essere offerti per soggiorni brevi. E a Berlino, da sempre città sostenitrice dell’equo canone e con una domanda di alloggi esplosa negli ultimi anni, da maggio di quest’anno sarà vietato offrire su Airb&b o piattaforme simili intere abitazioni, decisamente molto più popolari delle stanze in abitazioni condivise col padrone di casa.

Questo tipo di restrizioni sono però state criticate dagli utenti/fornitori del servizio. La possibilità di prendere in affitto un appartamento e sentirsi cittadini di una città diversa è quello che attira gli utenti, e per molti padroni di casa il servizio è un aiuto essenziale con mutui e spese domestiche. A pochi piace la burocrazia aggiunta che ingolfa una transazione pensata per essere informale e immediata.

Più creativa anche se probabilmente troppo complicata da realizzare è la proposta fatta da un gruppo di ricercatori italiani con base a Londra. Daniele Quercia e colleghi hanno studiato un sistema di “diritti di condivisione trasferibili” per mitigare gli squilibri involontariamente causati da Airbnb nel mercato londinese. Il meccanismo proposto sembra simile a quello dello scambio di quote di emissioni: ogni quartiere ha uguali “diritti di condivisione”, se non li usa li può cedere, dietro compenso, a un quartiere magari più popolare tra turisti. La popolarità poi potrebbe variare molto velocemente (ad esempio in caso di grandi eventi) quindi per rispondere a una domanda che cambia in tempo reale i ricercatori propongono una regolamentazione algoritmica e cioè che analizza i dati relativi a domanda e offerta e automaticamente riequilibra e ridistribuisce le quote di condivisione.

Impossibile dire se le regole “soft” generate con un algoritmo possano in effetti funzionare ma quello che è chiaro è che leggi punitive e ad hoc, divieti e burocrazia rischiano di soffocare il potenziale di una rivoluzione che è appena iniziata. Come tutte le innovazioni, la sharing economy ha bisogno di una base normativa robusta, ma serve forse un nuovo patto sociale, oltre che normativo, che promuova condivisione di mezzi e risorse, e valorizzi flessibilità e sperimentazione, per creare crescita economica.

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