Nel post precedente ho ribadito che la politica economica europea parte da un presupposto sbagliato: che vi sia in Europa crisi di offerta, incapacità di aumentare la produzione. Le imprese avrebbero raggiunto il limite produttivo, a causa di ‘problemi strutturali’ loro e dell’ambiente con cui si relazionano. Ma non esiste un solo modello teorico che ammetta una crisi d’offerta in presenza dei seguenti 4 sintomi: disoccupazione di massa, tassi d’interesse negativi, deflazione, surplus commerciale. Però dalla diagnosi sbagliata deriva l’improbabile terapia liberista: aumentare la produttività (di chi lavora)! Essa è priva di fondamento scientifico; è frutto di impressioni estemporanee, pregiudizi, interessi.

Tutti gli economisti sanno che i quattro sintomi suddetti indicano uno squilibrio della domanda: la gente non acquista (quanto si potrebbe produrre), risparmia ‘troppo’, per motivi precauzionali. Per superare la crisi occorrono dunque politiche di stimolo alla domanda o ‘keynesiane’; sostanzialmente: il deficit spending; e l’aumento congiunturale della spesa pubblica. Non adesso le politiche dell’offerta, che tramite la deflazione spesso deprimono la domanda. Ma se alcuni ‘offertisti’, come Luigi Guiso, hanno da tempo corretto le loro prescrizioni, altri non si danno per vinti. La linea del Piave consiste nell’affermare che ‘Stimolare la domanda è impossibile’. Con quali argomenti?

Trascuro le argomentazioni in malafede date in pasto all’opinione pubblica (ma non all’accademia). Tipo: “Ai tempi di Keynes i debiti pubblici erano bassi perciò si poteva fare deficit spending, oggi no”. O tipo: “Dal 1950 la spesa pubblica è aumentata tanto e non ha aiutato l’economia, perché dovrebbe farlo oggi?”. O tipo: “La crisi è nata da un eccesso di debito, come può essere curata da nuovo indebitamento?”. O tipo: “Un aumento della spesa pubblica andrebbe sprecata a causa della corruzione, perciò la manovra sarebbe inefficace!”. O tipo: “La nuova domanda andrebbe ad aumentare le importazioni e non avrebbe impatto sull’economia”. Se avete dubbi di questo tipo, gli offertisti se la ridono sotto i baffi.

Vi sono poi argomenti in buona fede (sostenuti in ambienti accademici, a volte in modo arrogante), ma dimostrabilmente sbagliati. Uno di questi: “L’equivalenza ricardiana (modello di Barro) implica l’impossibilità delle politiche keynesiane nel breve termine”: come ha sostenuto Alberto Bisin in un polemica con il sottoscritto. L’argomento è questo. Se per un anno il deficit pubblico aumenta di 100 milioni (per esempio si costruisce un nuovo tratto autostradale), l’aumento del debito pubblico dovrà essere ripagato in futuro dai cittadini; che lo sanno, perché sono perfettamente razionali; perciò nel momento stesso in cui avviene la spesa pubblica, per l’aspettativa di future tasse ridurranno i consumi di un ammontare equivalente, -100. L’effetto netto sulla spesa totale (pubblica e privata) è zero, la manovra è inefficace.

Il modello di Barro è sbagliato per molte ragioni (per esempio, se uno non arriva a fine mese e gli aumentano la pensione, quell’aumento lo spende!). Ma ammettiamo che sia giusto, che le famiglie siano tutte razionali, ecc.: ciò non implica l’impossibilità delle politiche keynesiane nel breve termine. Per finanziare l’autostrada, infatti, gli Stati emetterebbero nuovi Bund/OAT/BTP al tasso di circa l’1%-2%; e questo debito nuovo dovrà essere ‘servito’ con un aumento di tasse per 2 milioni l’anno nei 50 anni successivi: tanto i cittadini razionali risparmieranno. Lo stimolo alla domanda nel primo anno sarà dunque di 100-2=98 > 0. Le politiche di domanda nel breve termine sono efficacissime, secondo gli stessi modelli dell’offerta, se correttamente intesi.

L’argomento serio è invece questo. Supponiamo di avere all’anno zero un’economia stagnante, dove:

  • PIL = 10.000 Mld.

  • Crescita = 0%

  • deficit pubblico = 0 Mld.

  • inflazione = 0%

Per stimolare la domanda, il 1° anno costruiamo un ponte (spesa: 100 Mld.), il PIL sale di più, a 10150 Mld. per l’effetto moltiplicatore (1,5); e il deficit pubblico sale meno, a (-100 +0,4*150 =) -40. (0,4*150 sono le nuove entrate fiscali, dovute alla crescita del PIL). Il modello keynesiano è di breve termine e si ferma qui. Ma la politica economica non può fermarsi qui. Cosa succede l’anno dopo?

Se smetto di fare deficit spending, la spesa totale dell’economia – rebus sic stantibus – torna a 10.000 (PIL: -1,5%). Se invece faccio un altro ponte, e continuo a spendere gli stessi 100, il PIL resta fermo a 10150 (Pil: +0%). Per continuare a crescere dell’1,5% il secondo anno devo fare due nuovi ponti: cioè spendere 100+101,5=201,5 Mld. In questo modo il PIL salirà a 10301 però il deficit passa a 80 mil. circa. E così via. Finché (supponiamo il terzo anno) l’andamento esplosivo delle finanze pubbliche mi costringe ad azzerare il deficit pubblico: il che genera una recessione (PIL: -3%), un ritorno al PIL di partenza, ma con un debito pubblico più alto di 301,5 Mld. Questo ‘problema di lungo termine’ delle politiche keynesiane coglie di sorpresa molti politici, lasciando loro di stucco, e i liberisti gongolanti.

Allora perché le politiche keynesiane funzionano dappertutto? Per due motivi. Il primo è che i moltiplicatori possono essere più alti quanto più la depressione è grave, quanto più grande è il paese in questione (l’Eurozona è grande), e quanto più la spesa si concentra in alcuni settori. Al punto che oggi il nuovo gettito fiscale avrebbe molte probabilità di compensare totalmente l’aumento di spesa iniziale: spesa pubblica +100, PIL +250 (moltiplicatori = 2,5), nuove entrate +250*0,4= +100 a compensare le nuove spese, deficit = -100+100=0. È la voodo economics keynesiana, più fondata di quella Reaganiana. Laffer & friends volevano aumentare il PIL aumentando la produttività; ma è molto più facile farlo mettendo al lavoro i disoccupati!

La via normale keynesiana è però un’altra: difatti funziona anche quando le depressioni sono meno gravi e i moltiplicatori sono sotto le soglie ‘voodoo’. Essa merita di essere attentamente analizzata. Evidentemente, il rebus sic stantibus suddetto non vale, quasi mai: il successo keynesiano è anzi considerato da molti ‘scontato’; tanto che le sue ‘condizioni necessarie’ restano implicite. Ma sussistono anche nell’Eurozona?

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