Gli autori di satira hanno spesso lampi profetici. Come Vauro, che mesi fa pubblicò una vignetta sul Fatto, in cui si vedeva una corda per i panni da stendere da cui pendevano tante magliette “Je suis Charlie” … “Je suis Bataclan” … “Je suis Bruxelles”. Come per denunciare la passività di quanti – governi e classi politiche – attendono solo la prossima strage.

Cosa è successo dopo Parigi e dopo Bruxelles: si è cominciato a creare un corpo unico di intelligence europea, si è programmata una forza unificata di difesa e intervento europea? Non è accaduto nulla. Ogni paese va per conto suo e subisce in solitudine gli attacchi crescenti del terrorismo jihadista. Nel frattempo l’opinione pubblica, di fronte all’inerzia dei governi e alle falle nella sicurezza, diventa sempre più disorientata e impaurita con l’effetto che strati consistenti della popolazione stanno scivolando su posizioni di isteria anti-musulmana.

L‘attacco alla chiesa di Normandia e il barbaro sgozzamento dell’anziano sacerdote Jacques Hamel e di un altro fedele rappresentano un allarmante salto di qualità, rendendo più reale il pericolo che simili azioni, per effetto emulativo, possano tracimare in Italia, in Vaticano. L’arresto in Polonia, dov’è arrivato papa Francesco, di un iracheno in possesso di sostanze esplosive non è da sottovalutare.

Che fare? Dal papa argentino, che oltre a essere un capo religioso è anche un leader di statura internazionale, vengono alcune indicazioni operative. Per chi vuole capire. Perché Francesco non è solo l’uomo della misericordia, ma una fine testa politica.

La prima reazione di Francesco agli assassini di Saint-Etienne-de Rouvray è stata precisa. Come riferito dal portavoce vaticano: “Dolore e orrore per questa violenza assurda, con la condanna più radicale di ogni forma di odio”. Il messaggio è chiarissimo. Non c’è una guerra di religione, non c’è uno scontro di civiltà tra Islam e Occidente, tra mondo musulmano e mondo cristiano. Non c’è nella visione del pontefice nemmeno una esaltazione delle vittime cristiane a scapito degli uccisi di altra confessione. (Perché il 90 per cento delle persone assassinate dall’Isis sono musulmane e numerose moschee sono già state obiettivo di stragi). Nell’aereo per Cracovia il papa ha ribadito: “E’ una guerra, ma sono gli altri a volerla, non le religioni”.

Quello che Francesco ha spiegato in altre occasioni è che il terrorismo jihadista costituisce una manipolazione tutta politica della religione. In altre parole non abbiamo di fronte un movimento religioso, ma un’organizzazione totalitaria terroristica, che fa uso di slogan religiosi per fini politici, massacrando in prima linea gli oppositori musulmani insieme a cristiani, yazidi, ebrei e qualsiasi minoranza che non si piega. “E’ una guerra seria, per interessi, soldi, per le risorse naturali, per il dominio dei popoli”, ha insistito ancora ieri.

Da Francesco è venuta un’altra indicazione. Con anticipo di due anni il papa argentino ha definito con precisione la dimensione globale del fenomeno. E’ in atto – disse nell’agosto 2014 – una “terza guerra mondiale a pezzi …”. Fermare un’aggressione ingiusta è lecito, aggiunse. A chi spetta? Alle Nazioni unite e non a un intervento unilaterale. (Limpido riferimento alla follia dell’attacco americano all’Irak contro cui Giovanni Paolo II si battè fino all’ultimo). Nel loro summit all’Avana Francesco e il patriarca russo Kirill lo hanno esplicitato. Nella lotta al terrorismo la comunità internazionale, cioè l’Onu, intervenga con “azioni comuni, congiunte e coordinate”.

Qui Francesco si arresta. La parte operativa spetta ai leader politici e ai governi. La prospettiva – per chi è intenzionato ad agire seriamente – è lucida. Esiste una organizzazione totalitaria terroristica, che ha un territorio, centrali di azioni, quadri e “soldati”. Che gode di finanziamenti e traffica con altre nazioni. Un’organizzazione attiva in tre continenti: Asia, Europa, Africa. A questa organizzazione centrale fanno capo cellule organizzate in Europa, lupi solitari diventati militanti, persone sbandate che risolvono i loro problemi psichici afferrando una bandiera visibile, la bandiera del Califfato, per compiere stragi. Questa organizzazione, cui si sono affiliate altre organizzazioni terroriste in Africa e Medio Oriente, ha scatenato una guerra sanguinosa che tocca l’Europa e altre parti del pianeta.

Significa che il contrasto al jihadismo va condotto con la stessa sistematicità, lo stesso lungo respiro, la stessa repressione armata multilaterale – una guerra – con cui durante la Seconda guerra mondiale sono stati combattuti il nazismo e i suoi alleati. Significa formare una coalizione internazionale, sotto l’egida dell’Onu, che colpisca ogni centrale terroristica in Irak, in Siria, in Libia, nel Corno d’Africa, nel Mali, in Nigeria, in Afghanistan: ovunque esista un centro organizzato jihadista. Perché in Europa agiscono i terminali (quale che sia la loro forma) ma il punto di riferimento è nel Califfato e nei suoli alleati ed è quello che va distrutto.

E tuttavia non basta. In Europa la lotta alle centrali terroristiche islamiste esige ancora che le élites politiche si prefiggano di integrare sempre di più le popolazioni immigrate musulmane, portando l’islam quotidiano (parlare di islam moderato è una sciocchezza) sul terreno della convivenza civile ed esigendo in maniera ferma il rispetto dei principi costituzionali europei. No, dunque, ad un multiculturalismo inteso come “libanesizzazione” delle società europee. Ma no anche a ogni impedimento alla libertà di culto e alla legittima costruzione di moschee. (In Italia significa anche dare l’8 per mille alle comunità musulmane formate da cittadini italiani).
Al tempo stesso le nazioni europee devono chiedersi – in Francia il primo ministro Valls ha apertamento riconosciuto l’esistenza di una “apartheid” – come elimare la ghettizzazione dannosa delle etnie immigrate: fonte sicura di radicalismo.

Un programma troppo vasto?
Una guerra non si vince senza una visione di ampio respiro.

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