In Turchia, in queste ore post-golpe, non cadono solo le teste di militari, magistrati, dipendenti pubblici, insegnanti e rettori. Vittime dello stato di emergenza dichiarato dal Sultano per i prossimi tre mesi sono anche le donne e i bambini, e con essi i loro diritti. Erdogan e il suo establishment lavorano ai fianchi della laicità turca, su cui costituzionalmente si basa lo Stato di Ataturk, ormai da tempo: ne sono la riprova la riforma scolastica del 2012 di stampo fortemente religioso, ma soprattutto la stretta sui diritti umani, che ha subito un’accelerazione negli ultimi mesi. Ad avere la peggio, potrebbero essere i 3,5 milioni di spose-bambine: ai loro aguzzini, l’Alta Corte di Istanbul ha recentemente concesso una sorta di amnistia, eliminando di fatto il reato di abuso sessuale su minori indifesi.

Sono tante, soprattutto le giovani, che, nonostante la paura della repressione, sono decise a non mollare. Accade però che nell’occidentalissima Istanbul, le donne decidano di coprirsi, di abbandonare minigonne e magliette attillate per passeggiare, di sera, sulla centralissima İstiklâl Caddesi, proprio di fronte piazza Taksim. Per strada, caroselli di auto e uomini manifestano per quella che chiamano la vittoria contro un golpe ‘anti-democratico’, promettendo di far indossare il velo alle loro donne.

La disposizione dell’Alta Corte di Istanbul arriva a seguito della decisione della Corte Costituzionale dello scorso 15 dicembre 2015, in base alla quale i reati di pedofilia, e nello specifico commessi nei confronti di minori di 15 anni, sono da considerare alla stregua di abusi sessuali ordinari. A pronunciarsi a favore della riforma sono stati 7 giudici, contro altri 6: la modifica prende a sua volta le mosse da un rinvio da parte di un tribunale locale, secondo cui la legislazione turca non consente di distinguere tra i reati di abusi sessuali in base all’età delle vittime. La cesura ora pone come limite, ingiustificabile, l’età di 12 anni: dai 13 anni in su, dunque, le vittime sono considerate adolescenti consapevoli della natura di un atto sessuale. La decisione, in assenza di un nuovo pronunciamento, diventerà legge effettiva il 13 gennaio 2017. Nello specifico, inoltre, la Corte è intervenuta sulla norma che punisce gli abusi sessuali sui minori, sostenendo che la punizione per i reati sui bambini fra i 12 e i 15 anni non può essere uguale a quella che coinvolge gli under 12. I legislatori hanno sei mesi di tempo per riformulare la legge, dopodiché si creerà un vuoto legislativo.

La stessa Corte ha inoltre annullato un provvedimento in base al quale chi è giudicato colpevole del reato di pedofilia deve scontare una pena di almeno 16 anni di prigione. L’annullamento definitivo è previsto per il 23 dicembre 2016. Una legge che potrebbe avere dei risvolti devastanti: già ora, 3000 uomini accusati di stupro di minori hanno sposato le loro giovani vittime, pur di sfuggire alla pena.

La pratica dei matrimoni in Turchia con ‘spose-bambine’, seppure necessiti di essere distinta da quanto accade in altri paesi asiatici dove la situazione è ben più preoccupante (India e Pakistan in primis), è molto diffusa nella provincia di Şanlıurfa nel sud-est del Paese: lì, il 39% delle donne sposate con uomini adulti ha non più di 16 anni, in base a quanto analizzato dalla Fondazione Social Democratica, con sede a Istanbul. L’inasprimento dei diritti dei minori e delle donne arriva adesso, dopo anni in cui in Turchia c’erano stati dei barlumi garantisti: solo ad aprile del 2014 furono presentate al Parlamento turco alcune proposte di legge volte a inasprire le pene nei confronti dei colpevoli dei reati di abusi sessuali sui minori. A proporle, furono il ministro della famiglia, Aysenur Islam, l’allora primo ministro Recep Tayyip Erdogan e il ministro della giustizia Bekir Bozdag: all’epoca la società turca rimase scioccata dal ritrovamento di una bambina di 6 anni, legata, uccisa e abusata nella città di Adana. Un altro caso che in Paese aveva destato fortissimo sgomento aveva riguardato Muharrem Büyüktürk, l’insegnante condannato a 508 anni di carcere per aver abusato sessualmente di 10 bambini di 12 anni. Il governo era anche convinto che proprio la riforma scolastica del 4+4+4 (che estende l’obbligo scolastico fino ai 18 anni) e la diffusione delle scuole religiose, le imam-hatip, avrebbero bloccato il diffondersi dei matrimoni forzati e contratti da bambine innocenti e ignare.

La situazione diventa ancora più raccapricciante se si pensa che fonti locali parlano di stupri e abusi sessuali di ogni genere anche nei campi profughi turchi, dove migliaia di bambini siriani e iracheni trovano rifugio dagli orrori della guerra e delle persecuzioni. Il racconto del BirGun, giornale locale è scabroso: circa 30 bambini siriani, di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, sono stati adescati, tra settembre 2015 e gennaio 2016, da un addetto alle pulizie impiegato nel campo profughi dove sono ospitati, a Nizip, nella provincia sudorientale turca di Gaziantep. Poi condotti nei bagni e abusati sessualmente, in cambio di denaro (dalle 2 alle 5 lire turche, corrispondenti a un valore compreso tra i 50 centesimi e 1,5 euro). L’uomo è ora alla sbarra, mentre resistono forti le accuse sulla sicurezza dei campi profughi turchi, che al momento ospitano 2,7 milioni di siriani.

Già due giorni prima del golpe del 15 luglio, una delegazione turca aveva incontrato la Commissione Onu per la CEDAW (Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination Against Women): dall’organizzazione internazionale erano provenute forti critiche sulla condizione delle donne e dei minori nel Paese, con un Parlamento dove l’85% dei membri è di sesso maschile. La rappresentanza e la salvaguardia dei diritti delle donne infatti non sembra essere garantita: ripercorrendo gli ultimi anni della reggenza erdoganiana, a settembre 2014, il governo turco dell’Akp ha deciso di abolire il divieto di indossare il velo, in particolare nelle università: “So che soprattutto alcune studentesse desideravano poterlo usare”, aveva dichiarato all’epoca il vice premier Bulent Arinc. Due anni fa, il codice di abbigliamento degli studenti subì delle limitazioni, con l’imposizione di non restare a capo scoperto in classe.

Misure che non erano naturalmente passate inosservate: il divieto di indossare il velo a scuola resta infatti uno dei pilastri dello Stato laico del padre della patria Ataturk. In particolare è stato alto il malcontento e tante le polemiche da parte delle opposizioni e dei sindacati degli insegnanti, come l’Egitim-Sen. Il ‘turban’, come viene chiamato in Turchia il velo islamico, era ammesso solo nelle scuole islamiche, le ‘imam-hatip’, mentre nelle università il divieto era già stato abolito nel 2008 da un decreto dello stesso Erdogan. All’epoca intervenne tuttavia un decreto della Corte Costituzionale, che annullò il provvedimento.

Il governo di Erdogan non risparmia neppure la legge sull’aborto. Le associazioni per i diritti umani e delle donne, molto attive soprattutto a Istanbul, hanno denunciato già a febbraio 2015 come in molti ospedali delle città turche i medici si rifiutassero di assistere le donne nell’aborto, garantito legislativamente in Paese dal 1983 anche per ridurre la mortalità, consentendo l’interruzione della gravidanza prima delle 10 settimane. Ma nel 2012, l’Akp propose una legge per “difendere” i medici “obiettori di coscienza”: un provvedimento tuttavia rigettato. Eppure lo stesso Erdogan continua a parlare dell’aborto come di “un omicidio”, incitando le donne sposate ad avere almeno tre figli.

Aggiornato da Redazione Web il 28 luglio alle 18.49

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