di Stefania Mangione*

La somministrazione di lavoro è un istituto, presente nell’ordinamento dal 2003 (v. d.lgs. 276/2003; prima ancora, e dal 1997, si parlava di lavoro interinale) mediante il quale un’agenzia con specifiche caratteristiche e a ciò autorizzata fornisce lavoratori subordinati ad un’impresa utilizzatrice. La somministrazione può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato.

Al pari del lavoro a termine, anche la somministrazione di lavoro a tempo determinato è stata del tutto liberalizzata dalle riforme del lavoro del governo Renzi. Il cosiddetto “decreto Poletti” (d.l. 34/2014) il cui impianto è stato confermato dal d.lgs. 81/2015 ha, infatti, definitivamente eliminato dalla precedente disciplina del lavoro tramite agenzia ogni necessità di giustificazione causale (che già con la riforma Fornero era venuta meno, ma solo per la prima missione presso l’utilizzatore, della durata massima di 12 mesi).

Questa novità è particolarmente forte e marca una distanza significativa dal precedente e superato regime. L’indicazione delle ragioni che giustificavano il ricorso al lavoro somministrato (“di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”) serviva a consentire ai lavoratori, al sindacato ed eventualmente al giudice il controllo sulla legittimità del contratto e, più in particolare, sulla circostanza che il ricorso a tale figura servisse effettivamente a soddisfare esigenze oggettive di carattere temporaneo.

Ora tutto questo non è più necessario.

Peraltro, e diversamente da quanto previsto per il lavoro a termine (il cui limite temporale massimo è individuato dalla legge in 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi) la somministrazione di lavoro a tempo determinato non conosce alcun limite di durata.

E ancora: se per il contratto a termine e per la somministrazione a tempo indeterminato è previsto un contingentamento legale del 20% – ossia un limite quantitativo alla percentuale di lavoratori impiegati con tali forme contrattuali sulla forza lavoro occupata dall’impresa – per la somministrazione a termine non c’è nemmeno tale limitazione (salvo diverse previsioni dei contratti collettivi).

Per fare un esempio: oggi un’impresa ben potrebbe funzionare con oltre la metà di lavoratori somministrati, le cui missioni si susseguono per 10 anni.

In definitiva, i soli argini all’impiego di tale istituto previsti dalla legge sono rappresentati, sul piano formale, dall’obbligo di forma scritta ai fini della validità del contratto e, sul piano sostanziale, dal permanere dei tradizionali divieti comuni quasi a tutte le tipologie di lavoro flessibile: sostituzione di lavoratori in sciopero; imprese che nei 6 mesi precedenti abbiano fatto ricorso alla cassa integrazione e/o abbiano effettuato un licenziamento collettivo di lavoratori occupati nelle mansioni affidate ai lavoratori somministrati; imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi del testo unico in materia di tutela della salute e sicurezza.

Per concludere, l’utilizzazione indiretta di lavoratori somministrati a tempo determinato è, oggi, assolutamente libera e priva di ogni limitazione.

Nelle esternalizzazioni, la verosimile ragione per la quale il lavoro somministrato non supera l’utilizzo, ancora crescente, dei contratti di appalto risiede nel tendenziale minor costo di questi ultimi. Difatti, quando un’impresa svolge un’attività con lavoratori in somministrazione, deve rispettare una sorta di parità di trattamento tra i propri dipendenti e i lavoratori somministrati; nel caso dell’appalto, invece, tale sacrosanto principio, un tempo contenuto nell’art. 3 della l. 1369/1960, è stato cancellato nel 2003 e mai più reintrodotto, se non nell’odierna Carta dei diritti universali del lavoro, sulla quale è ancora in corso la raccolta di firme della Cgil.

* Sono avvocata giuslavorista a Bologna, per i lavoratori. Ho scritto, assieme ad Alberto Piccinini, un libro in materia di comportamento antisindacale e faccio della parte della redazione regionale Emilia – Romagna della rivista RGL News.

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