Nell’anno del Signore 2017 i conservatori erano ormai in rotta. Sottoposto al bombardamento quotidiano di un inesauribile campionario di paure, il popolo italico rinsavì, assicurando la vittoria del “sì” al referendum costituzionale dell’ottobre precedente. Certo la disinteressata e assolutamente attendibile informazione che l’esito contrario avrebbe determinato la perdita di mezzo punto del Pil sconvolse torme di giovani ottimisti, in fervida attesa del futuro “beautiful” assicurato dal Jobs Act. I siderurgici dell’Ilva e della Thyssen vennero convinti dal parere pro veritate del neo presidente di Confindustria Vincenzo Boccia (erede di quella veneranda tradizione di pazzarielli napoletani installati ai vertici di viale dell’Astronomia risalente al tecno-padre Antonio d’Amato, memorabile per la sua battaglia a fianco del fu Cavaliere Berlusconi nella lotta contro il pernicioso articolo 18), quando il noto industriale grafico, invecchiato precocemente percorrendo i corridoi associativi in penombra (da cui il colorito tipico delle mozzarelle della natia Salerno), li ammonì del pericolo che la deprecabile vittoria del “no” avrebbe inoculato il fenomeno della disoccupazione; inaudito prima ancora che sconosciuto dalle nostre parti.

I correntisti di Banca Etruria furono indirizzati verso il corretto giudizio dalla presa di posizione di una persona di cui potevano fidarsi ciecamente come Mario Draghi, quando il governatore di Bce fece filtrare il suo sommesso parere che l’arresto del rinnovamento renziano poteva destabilizzare il sistema nazionale del credito, oggi fermamente dalla parte dei clienti.

Infine fu decisiva la presa di posizione di un intemerato difensore della democrazia contro qualsivoglia deriva oligarchica – quale il presidente emerito Giorgio Napolitano – preoccupato che si potesse perdere la tanto attesa occasione di liberare il popolo dalla fastidiosa incombenza di giudicare chi lo governa e liberare il ponte di comando dai fastidiosi inciampi creati da quello sfessato del Montesquieu.

Fu così che il premier golden boy Matteo Renzi poté spazzare via in un sol colpo tutti gli ostacoli alla traduzione “in fare” degli insegnamenti di un saggio mentore aretino, più noto come “Maestro Venerabile” e amichevolmente soprannominato “Licio P2”.

Il successo aumentò la lena. Si pensava inizialmente di estendere all’intera penisola il modello Granducato di Toscana (definito dai consulenti d’organizzazione “top-down”. Ossia, in una lettura papalina, “io so’ io e vui nun siete un c.”). Ma poi si preferì pensare più in grande. Nel revival latinoamericano in corso, il lider maximo si fece confezionare dallo stilista Cavalli una divisa bianca da caudillo con bottoni dorati e iniziò a fregiarsi dell’appellativo di Peron redivivo.

Sicché Juan Domingo Matteo, sulla scia del suo predecessore australe (che imbarcava oro nello yacht ormeggiato nel Rio de la Plata), fece riempire dal fido Carrai le stive dell’aereo presidenziale di certificati autorizzativi l’insediamento di outlet in tutte le zone sismiche nazionali e la trivellazione perfino delle spiagge di balneazione.

Per dare un sacrosanto esempio si procedette a garrotare in piazza Campo dei Fiori il noto sovversivo Massimo d’Alema. E testimoni oculari attestano che, anche a esecuzione avvenuta, il pervicace continuò a rivolgere smorfie e linguacce verso Palazzo Chigi. Intanto i professori Alessandro Pace, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky venivano confinati in un’isoletta tirrenica, tal Ventotene.

Maria Evita Boschi fu doverosamente santificata “madonna dei descamisados (e dei veri partigiani)”; ossia la protettrice delle masse adoranti di incapienti che continuavano ad ammassarsi nelle bidonville in crescita un po’ dappertutto nelle città italiane. La cui gestione era stata affidata a esperti del settore, titolari di un prezioso know how affinato negli appalti capitolini e con cui il ministro Poletti intratteneva già da tempo rapporti conviviali di tipo informale.

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