di Annalisa Rosiello *

Nella Costituzione italiana, sin dal primo articolo, si legge che il lavoro è l’elemento fondante della nostra Repubblica ed è uno strumento per far progredire materialmente e spiritualmente la società. Si tratta di affermazioni elevate, che inquadrano il lavoro come una missione e che in alcune occasioni non restano lettera morta.

Esistono anche nel nostro Paese, infatti, molteplici realtà virtuose, che perseguono questi importanti obiettivi, riconoscendo a chi lavora retribuzioni economicamente eque e creando un ambiente di lavoro sereno, in cui sia possibile, seppure nelle difficoltà quotidiane, esprimersi e sentirsi realizzati. Ciò, peraltro, a beneficio anche delle stesse organizzazioni, perché è ovvio che un clima simile invogli e motivi.

Consideriamo le realtà italiane: è forse questo un sogno? Per molte organizzazioni e per molti lavoratori, purtroppo, ancora sì.

Numerose sono le aziende, anche multinazionali, che si fregiano di adottare codici etici, di seguire policy interne per contrastare pratiche dannose (stress, molestie, mobbing), di promuovere un clima interno corretto e rispettoso. Nonostante tutti i buoni propositi scritti, molte di queste stesse realtà (operanti sia nel privato che nel pubblico), per insipienza, per scarsa attenzione, o persino per deliberata politica del vertice – tendono nei fatti a non valorizzare le persone o, addirittura, a mortificarle, aggredirle e persino offenderle.

Di converso, nel nostro sistema giuridico intervengono il diritto antidiscriminatorio, la legislazione in tema di responsabilità delle imprese e la normativa sullo stress lavoro correlato a bandire simili condotte.

Il rispetto delle norme e l’adozione di buone pratiche dovrebbe naturalmente partire dalla testa dell’organizzazione: è il datore di lavoro, assieme ai suoi più stretti collaboratori, a dover “dare il buon esempio”, essendo il primo testimone di questa via, il cui abbandono potrebbe esporlo a pesanti perdite (anche in termini di immagine) e responsabilità, anche di natura penale.

E dunque perché ancora oggi si parla di mobbing? Perché si parla ancora di mobbing nonostante sia dimostrato che un clima sereno, inclusivo, rispettoso delle diversità e valorizzante faccia bene non solo alle persone ma alle organizzazioni stesse e alla società nel suo insieme? Perché nel lavoro di tutti i giorni ci troviamo ancora ad ascoltare storie di abusi, di prevaricazioni, di intimidazioni, di mortificazioni che hanno dell’assurdo?

Il caso del primario che strappa davanti ad un paziente il referto elaborato da una sua collega di reparto; quello della veterinaria zelante odiata da tutti gli allevatori della zona e dai suoi colleghi, più inclini a rilasciare certificazioni senza eseguire controlli accurati sugli animali destinati al macello; quello ancora del dipendente, già capo di un grande negozio, dimenticato nei corridoi e lasciato inoperoso per lungo tempo; l’addetta alla macelleria costretta ad ascoltare costantemente battute spinte durante il lavoro; e così via. Il panorama giurisprudenziale è purtroppo ricco di situazioni offensive della dignità e anche della salute delle persone.

Nei luoghi di lavoro le relazioni presentano aspetti di fragilità perché le persone non possono scegliere liberamente come e con chi lavorare. Inoltre quasi mai possono, almeno nell’immediato, cambiare lavoro.

Dimentichi (o forti) di questo, alcuni soggetti poco sensibili (o poco adulti) si permettono di tutto: cinismo, prepotenza, maldicenza, invidia, indifferenza, turpiloquio, linguaggio spinto, battute fuori luogo. Queste espressioni purtroppo costituiscono il terreno fertile sul quale far attecchire “pratiche” come il mobbing e le altre disfunzioni e derive (anche discriminatorie) proprie di rapporti di lavoro “insani”.

Eppure, come si diceva, abbiamo una legislazione di derivazione comunitaria che da questo punto di vista è estremamente avanzata. L’art. 28 del TU 81/2008, con le successive modifiche e integrazioni, prevede l’obbligo di prevenire il rischio stress correlato al lavoro attraverso specifici strumenti di indagine e valutazione.

Le indagini di clima, i colloqui e l’ascolto da parte del management sono tutte situazioni che migliorano l’ambiente di lavoro o, quantomeno, consentono di testarlo e verificarne possibili miglioramenti. Peraltro svolgere attività di prevenzione in materia di stress è soprattutto interesse dell’impresa, determinando un incremento della produttività ed una riduzione delle assenze per malattia, ecc..

Se, invece, l’attività preventiva non funziona adeguatamente si può intervenire sindacalmente o legalmente anche per arrestare sul nascere comportamenti persecutori o anche semplici abusi, ancorché isolati. Sappiamo infatti che più passa il tempo più i danni, per la vittima e per l’organizzazione aumentano.

Cito a questo riguardo una recente sentenza della Corte di Cassazione che parla di mobbing e straining: secondo questa sentenza poco importa la definizione, se non sul piano squisitamente medico-legale; non esiste infatti una qualificazione legale di questi fenomeni.

In altre parole non conta se hai subito un episodio vessatorio o cento, se vi è stata intenzionalità lesiva o no. Poco importa quanto il tutto è durato: ciò che va valutato è se l’azienda, anche con condotte omissive, abbia violato l’art. 2087 c.c. e la normativa in materia di protezione della salute psico-fisica dei lavoratori. In caso di controversia occorrerà poi dimostrare i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.

* L’autrice è una delle curatrici di questo blog, qui la sua biografia

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