La democrazia ha tanti difetti, ma è meglio di quello che ci raccontano i tanti aedi della “volontà popolare” in solluchero perché in Gran Bretagna la “gente” ha finalmente sconfitto la “élite”. Sul Corriere della Sera è in corso una polemica abbastanza violenta: Bernhard Henry Levy versus Ernesto Galli della Loggia. Le baruffe giornalistiche altrui di solito non meritano di essere riprese da altri giornali, ma in questo caso le posizioni sono interessanti. 

Ha scritto Henry Levy:

Brexit è la vittoria non del popolo, ma del populismo. Non della democrazia, ma della demagogia. È la vittoria della destra dura sulla destra moderata, e della sinistra radicale sulla sinistra liberale. È la vittoria, nei due campi, della xenofobia, del vecchio odio verso l’immigrato e dell’ossessione di avere il nemico in casa”. 

Un punto di vista che ha le sue ragioni: la destra di Nigel Farage e Boris Johnson ha prevalso su quella di David Cameron, il tema immigrazione è stato centrale nella campagna del “leave”. La sinistra radicale di Jeremy Corbyn non ha certo trionfato. E perfino Johnson non può già più celebrare la propria vittoria, visto che oggi ha comunicato che non correrà più per la leadership dei Conservatori e il governo. 

Replica Galli della Loggia: 

Mi chiedo come sia possibile non rendersi conto che proprio pensando, dicendo e scrivendo da anni, a proposito di parti sempre crescenti delle opinioni pubbliche del continente cose come quelle scritte da Lévy, non rendersi conto, dicevo, che proprio in questo modo le élite intellettuali (e politiche) europee sono riuscite a scavare tra sé e le opinioni pubbliche di cui sopra un solco profondo di avversione e di disprezzo”. 

Quelli come Levy hanno sempre pensato che bastasse parlare e agire nell’interesse generale, o in quello che si è convinti sia tale, perché anche le “masse” si adeguino. Ma l’argomento di Galli della Loggia è falso: nella democrazia rappresentativa delle elezioni le élite sono parte essenziale del processo decisionale, nel senso che i molti scelgono i pochi a cui delegano il potere. Anche il Movimento Cinque Stelle, con qualche riluttanza, ha dovuto arrendersi a questa evidenza: hanno parlamentari, un direttorio, leader. 

In Europa o negli Usa non si può più sostenere che ci sia una contrapposizione tra popolo ed élite: Marine Le Pen può diventare presidente della Francia, Donald Trump degli Stati Uniti, Luigi Di Maio ha buone chance di sostituire Matteo Renzi a palazzo Chigi, Boris Johnson si era illuso di poter fare il premier, in Olanda gli anti-euopei hanno vinto il referendum contro il trattato di associazione tra Ue e Ucraina, Francois Hollande cavalca le paure sul Ttip, il trattato commerciale Usa-Ue.   

I populisti vogliono conquistare il potere, non contestarlo. Il populismo è diventato il linguaggio, lo stile, il metodo delle élite, non di chi si oppone alle élite. Il populismo ha già vinto. Non è affatto vera la premessa logica di Galli Della Loggia, cioè che per anni la “gente” è rimasta senza voce, che è stata ignorata dalla politica e dalle élite. Sono decenni che politici e intellettuali invocano la “pancia” degli elettori, offrendo loro spiegazioni facili di fenomeni complessi e spesso dolorosi, come la globalizzazione. 

Non c’è alcun “solco” tra le élite e le “opinioni pubbliche”. Semplicemente ci sono élite che per anni hanno parlato per anni alle loro opinioni pubbliche di immigrati che ci rubano il lavoro, dell’euro che ha fatto salire i prezzi, di battaglioni di idraulici polacchi, di orde islamiche pronte al saccheggio, dell’Europa che pensa alla misura delle zucchine e non delle persone. 

I populisti, gli anti-sistema, gli xenofobi e gli euroscettici ci sono sempre stati. Il Front National è sulla scena politica francese dal 1972, ha mandato Jean Marie Le Pen al ballottaggio per l’Eliseo nel 2002. Con la crisi economica, dal 2008 in poi, è cresciuta l’incertezza e il disagio sociale, i governi non sono riusciti a offrire risposte convincenti al proprio elettorato, anche perché i problemi erano troppo grandi per essere risolti a livello nazionale. L’Unione europea si è trovata stretta tra poteri limitati, aspettative crescenti e – soprattutto – governi nazionali che la usavano come strumento quando utile e come capro espiatorio in tutte le altre occasioni. 

E così oggi gli argomenti dei populisti sono diventati mainstream: perfino il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ormai dice che le regole sulle banche sono colpa dell’Europa cattiva. Cameron dell’Europa parlava in modo non troppo diverso da Farage prima di trovarsi costretto a difenderla nella campagna di un referendum convocato proprio per inseguire i populisti-nazionalisti sul loro terreno. E alle tentazioni di Cameron hanno ceduto, a fasi alterne, anche Hollande, Renzi, Alexis Tsipras, i governi di Olanda e Finlandia.

Il populismo è diventato di sistema, non anti-sistema. Ormai il vero atto di ribellione intellettuale è rifiutarsi di cedere alle semplificazioni.

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