Le elezioni spagnole sono un’ottima cartina di tornasole per capire cosa sta accadendo nell’Europa in preda alla Brexit e quali rapporti di forza si stanno delineando. Una vittoria di Podemos o, perlomeno, l’atteso sorpasso a danno dei socialisti e l’affermazione come seconda forza politica del Paese avrebbe messo ulteriormente in allarme Bruxelles e le cancellerie continentali. Invece, la conferma dell’ingovernabilità – con la vittoria del Partito Popolare, che però non ottiene la maggioranza dei seggi – rappresenta paradossalmente un dato neutro, se non addirittura positivo per l’Europa a trazione tedesca che può tranquillamente archiviare quest’esito come del tutto ininfluente sul futuro dell’Unione. Poco conta che la Spagna sia tornata al voto a sei mesi dalle precedenti elezioni per l’impossibilità di formare un governo e poco conta che possa essere costretta a tornarci tra altri sei mesi per lo stesso motivo: ciò che importa davvero è che l’esito politico della consultazione elettorale non abbia gettato ulteriore benzina sul fuoco dell’euroscetticismo e della protesta anti-austerity.

Sintomatica da questo punto di vista la scelta dei siti dei principali giornali tedeschi, francesi e britannici, oltre che del Financial Times e del Wall Street Journal di relegare le elezioni spagnole tra le notizie meno importanti della giornata e il New York Times, addirittura, non l’ha reputata degna di figurare in home page. Tutto il contrario dei giornali italiani e portoghesi che, oltre a quelli spagnoli, su questa notizia hanno invece aperto le loro edizioni, perché ciò che accade a Madrid riguarda da vicino anche gli altri Paesi dell’Europa periferica e in particolare l’Italia. Questo non tanto e non solo per le presunte similitudini e differenze tra Podemos e il Movimento 5 Stelle e per lo scenario politico dominato da una sorta di tripartitismo, quanto piuttosto per la necessità di fare fronte comune in Europa nelle settimane e nei mesi a venire. Ma l’assenza di un verdetto elettorale chiaro depotenzia sul nascere un eventuale asse Roma-Madrid-Parigi e porta inevitabilmente la Spagna a guardare più ai suoi problemi interni che alla prospettiva europea.

Quella che è uscita dalle urne è una Spagna che non morde e che – numeri alla mano – può essere governata solo da una “gran coalition” Popolari-Socialisti-Ciudadanos, l’unica in grado di avere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Nei sei mesi passati i socialisti di Sanchez hanno dato picche alla proposta di alleanza di governo avanzata dal premier Mariano Rajoy, ma ora che – pur mantenendo il secondo posto – hanno visto calare ai minimi storici i loro seggi e hanno perso una roccaforte storica come l’Andalusia, potrebbero essere indotti a ripensarci. La ragione è che in una fase d’incertezza come l’attuale la Spagna non è nelle condizioni di permettersi uno stallo politico a tempo indefinito perché la indebolirebbe ulteriormente facendone anche un facile bersaglio per la speculazione finanziaria, come ha dimostrato il crollo della Bolsa di Madrid in linea con quello di Piazza Affari nel bel mezzo del venerdì nero (-12%). Quindi, obtorto collo, è più che probabile che nelle prossime settimane si intavoli un dialogo tra i due maggiori partiti nel tentativo di trovare un accordo e dare un governo al Paese. Quanto alla Brexit, pur sfruttata da Popolari in chiave anti-Podemos nelle ultime battute di campagna elettorale, non sembra aver influenzato più di tanto l’esito del voto, mentre potrebbe giocare un ruolo nel frenare le spinte indipendentiste della Catalogna, dove il vento della separazione da Madrid ha finora soffiato forte.

Non c’è dubbio che l’assenza di un governo centrale forte e rappresentativo costituisca un incentivo per arrivare in tempi brevi all’autoproclamazione dell’indipendenza, come è nei programmi della coalizione al governo della Generalitat de Catalunya, ma la prospettiva di un’Unione frammentata e il rischio concretissimo che la propria scelta possa autoescludere Barcellona dalla Ue mina alla radice molte delle certezze catalane sulla convenienza economica dell’indipendenza. Un conto infatti è una Catalogna che può beneficiare appieno della libera circolazione di persone, merci e servizi, un conto è rischiare di ritrovarsi improvvisamente fuori da questo meccanismo avendo per di più tagliato i ponti con quello che è il proprio partner economico più importante: il resto della Spagna. Da questo punto di vista la “lezione inglese” (con il corredo della volontà degli scozzesi di non uscire dall’Unione europea) può rappresentare un fattore dissuasivo anche per gli indipendentisti catalani più convinti e può essere invece l’occasione per aprire un serio tavolo negoziale con Madrid per ottenere quell’autonomia anche fiscale che altre Regioni spagnole hanno (a partire dai Paesi Baschi) e di cui invece la Catalogna non gode minimamente.

Il fatto che dalle urne spagnole non sia ancora una volta uscita una maggioranza chiara può sicuramente dare un vantaggio negoziale ai catalani, dove invece la maggioranza indipendentista è compatta nelle sue richieste. E’ ancora presto per dire se questa prospettiva si aprirà sul serio, ma l’avvio di un dialogo tra Barcellona e Madrid potrebbe essere uno dei pochi fattori positivi, ancorché indiretti, della Brexit.

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