di Eugenio D’Auria ***

In un periodo di particolare importanza per il futuro dell’Europa e in attesa della imminente decisione della Corte costituzionale austriaca sul ricorso presentato dal Freiheitliche partei Österreichs (FPÖ), il Partito della libertà austriaco, sembra utile approfondire alcuni elementi emersi dalle elezioni presidenziali del maggio 2016. L’Austria non è più la stessa e ciò dovrebbe interessarci molto, in quanto membri dell’Unione europea e per i possibili riflessi sulle tematiche dell’immigrazione e sulla questione altoatesina.

La battaglia elettorale, dura e senza esclusioni di colpi, ha lasciato una traccia: il Paese, da ospitale e pacifico, sembra tramutato in xenofobo, pronto a costruire barriere al Brennero per fermare la presunta invasione straniera. Il fiume di voti per Norbert Hofer ha definitivamente sdoganato il Partito della libertà austriaco, noto per i suoi sentimenti antieuropei, le definizioni razziste contro ebrei, gay e immigrati nonché sostenitore del “ritorno” dell’Alto Adige all’Austria. Dopo il primo turno, centinaia di migliaia di austriaci si sono tuttavia mobilitati per evitare il peggio, consentendo al candidato governativo di prevalere per un soffio.

Una piccola nazione (8.5 milioni di abitanti) è in prima linea nel fronteggiare un’ondata migratoria senza precedenti: 90.000 richieste di asilo nel 2015 secondo i dati Eurostat, una delle percentuali pro-capite più elevate in Europa rispetto alla popolazione. E’ comprensibile quindi l’aumento della sensazione di insicurezza, ben alimentata da demagoghi populisti. La crisi vissuta al Brennero, al momento sotto controllo di fronte all’evidenza di flussi decrescenti dal nostro Paese rispetto agli anni scorsi, è un segnale preoccupante di quanto il richiamo populista coinvolga anche popolazioni di livello culturale elevato.

L’Austria accolse decine di migliaia di profughi dai Balcani negli anni ‘90; ora è un Paese angosciato, incerto del proprio futuro e pronto a sacrificare la sua secolare storia multietnica e il fascino della Vienna poliglotta. La piccola nazione nel cuore dell’Europa stenta a individuare un suo ruolo dopo aver efficacemente utilizzato i cospicui fondi provenienti da Bruxelles per modernizzare l’industria, l’agricoltura e l’apparato turistico.

L’incapacità della classe politica popolar-cattolica e socialdemocratica, al governo nell’ultimo trentennio, a far fronte alla nuova situazione internazionale, ha creato una cesura con il sistema emerso dopo la Seconda guerra mondiale. A Vienna nulla sembra più come prima: il ballottaggio Hofer (FPÖ) –Van der Bellen (Verdi) non è stato un semplice confronto destra/sinistra: la mappa politica, radicalmente cambiata, è simbolo di un capitolo storico che volge al termine perché i vecchi partiti, a giudizio degli elettori, non sembrano lottare più per ideali o per programmi elettorali ma solo per posti e risorse.

Dal punto di vista finanziario, il Paese, come molti altri nella UE, soffre più per gli scandali bancari che per gli aiuti sociali, peraltro dimezzati, destinati ai profughi. Il caso austriaco è emblematico di come possano essere agitati gli spettri più spaventosi quando in realtà tutto è sotto controllo.

La Terza Repubblica austriaca prenderà una svolta autoritaria con evoluzioni in stile polacco o ungherese, o elezioni frequenti all’italiana o nuovi esperimenti di “democrazia creativa” secondo il pensiero scandinavo? A fronte di tali interrogativi vi sono elementi particolarmente importanti per una riflessione utile anche a comprendere la situazione in molti altri Paesi europei. Il quadro politico dell’Europa del dopoguerra si sta sgretolando: i partiti tradizionali che hanno dominato la politica del Continente dalla fine della Seconda guerra mondiale hanno perso la loro presa sull’elettorato. Vi è una crescente radicalizzazione, che trasforma il dibattito politico e rispecchia la divisione di classe allargatasi a dismisura nell’ultimo decennio.

Le classi medie, minacciate nel loro status dagli effetti della crisi economica, avvertono il richiamo populista. Non si può spiegare diversamente quanto accaduto in una delle nazioni più ricche d’Europa, con una bassa percentuale di disoccupazione e una crescita stabile. Il risultato elettorale ha evidenziato che metà della popolazione ritiene che l’Austria stia andando nella direzione sbagliata e che l’Islam, l’Ue e le forze della globalizzazione minaccino di distruggere il futuro della nazione. In altri Paesi europei vi sono confronti analoghi, con partiti e gruppi politici vicini alle posizioni del Partito della libertà. I gruppi liberal-progressisti non sono però battuti in maniera definitiva e la rimonta di Van der Bellen in Austria ha evidenziato la capacità di formare un fronte coeso contro l’affermarsi di forze ritenute estremiste, a condizione che vi sia chiarezza sugli argomenti principali in discussione.

La musica è quindi cambiata e vi è bisogno, anche per tutto il Vecchio Continente, di nuovi schemi, capaci di interpretare questo periodo; come riuscì a Schoenberg, con le sue sinfonie dodecafoniche, nella rappresentazione della fine dell’Impero asburgico (e della Belle Epoque).

*** già Ambasciatore in Arabia Saudita e Austria

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