I primi risultati arrivati da Newcastle avevano fatto ben sperare gli europeisti britannici. In una delle città più grandi del Regno Unito, poco prima della mezzanotte fra giovedì e venerdì, il fronte per il ‘Remain’ e contro la Brexit aveva vinto, seppur di poco, ma era comunque una maggioranza che accendeva la speranza di colore che non volevano lasciare l’Unione. Poi, durante le prime ore del giorno, mano a mano che arrivavano i risultati, il tracollo pareva insormontabile. Tutte le zone più povere del Regno Unito e più inclini storicamente a votare il Labour stavano voltando le spalle a Bruxelles e all’Unione europea, a un matrimonio con gli altri paesi del continente che andava avanti da più di quarant’anni. Ecco così, emerge ora sempre più chiaro, il partito laburista, la principale formazione di opposizione, sarà una delle vittime dell’esito di questo voto referendario. Dopo esserne stato, sostengono in molti, corresponsabile.

Del resto il suo leader, il parlamentare di Islington pacifista e terzomondista, Jeremy Corbyn, non ha un passato da europeista, anzi. Più volte in passato da deputato a Westminster ha votato contro leggi che avevano a che fare anche minimamente con le ‘imposizioni’ o le ‘raccomandazioni’ di Bruxelles. E chi lo conosce veramente giura che Corbyn è un euroscettico “nel cuore”, nonostante la posizione ufficiale del partito sia stata, nelle ultime settimane, assolutamente anti-Brexit. “Corbyn è ostaggio della parte blairiana del partito”, aveva detto solo due giorni fa a ilfattoquotidiano.it Alex Gordon, uno dei leader dell’Rmt, il potente sindacato del settore dei trasporti. Così, aveva suggerito il ‘Landini inglese’ favorevole alla Brexit, Corbyn negli ultimi mesi si sarebbe detto europeista soltanto per tenere in piedi un partito travagliato e diviso, che proprio in seguito alla sua elezione a leader con le primarie aveva visto lo scatenarsi della rabbia dell’ex premier Tony Blair e dei suoi sodali.

Due diverse modalità di concepire il partito: una di centro, propugnata da Blair e seguita dai leader “di sinistra” di quasi tutta Europa. L’altra assolutamente più spostata verso il “socialismo”, come nel Regno Unito viene chiamato quello che altrove sarebbe chiamato “comunismo”, e qui appunto sta Corbyn. E da qui è partito, ora pare chiarissimo, tutto il dramma del Labour: non è così un caso che dopo l’elezione alla primarie di Corbyn, nel settembre del 2015, Tony Blair abbia parlato apertamente di “tragedia” e di “momento da superare”. Forse, anzi quasi sicuramente, l’ex primo ministro della guerra in Iraq nel 2003 ci aveva visto lungo.

Poi, appunto, il voto per la Brexit. Le Midlands, il cuore dell’Inghilterra, hanno votato contro Bruxelles. Persino Birmingham, seconda città del Regno Unito per abitanti e fra i centri industriali più grandi d’Europa, da sempre roccaforte del Labour, ha votato per uscire dal recinto comunitario. Ecco così che un dubbio serpeggia a Londra nella mattina di venerdì 24 giugno. Probabilmente il Labour non ha svolto la sua campagna nel modo giusto, forse non lo ha fatto con sufficiente passione, anche a causa delle sue divisioni interne. E il risultato, ora, è tutto in quel 52% e passa di britannici che ha scelto la Brexit.

Chuka Umunna, parlamentare e astro nascente del Labour, alle prime ore dell’alba ha accusato Nigel Farage, leader dell’Ukip, di aver usato nel suo discorso della vittoria dopo il risultato “un linguaggio che divide”. “Quando Farage dice che questa è una vittoria della gente per bene, degli onesti e della gente comune, questo sta a significare che tutte le persone che hanno votato per restare in Europa non rientrano in questa categoria. E a noi politici toccherà ricucire assieme la nostra società dopo questa frattura”, ha detto Umunna. Peccato che a essere diviso, ora e forse per molto tempo a venire, sia proprio il Labour. Mentre l’Ukip di Farage, nello stesso gruppo del Movimento 5 Stelle all’europarlamento di Bruxelles, ora sembra proprio andare forte come un treno.

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