A Cattolica – balere e piadine, pescatori e infradito – dopo 70 anni hanno deciso che poteva bastare: per una volta hanno scelto come sindaco uno che non era del partitone, ma uno che finora si è occupato di vendere vino buono. Non è giovane, Mariano Gennari ha 54 anni, e per la prima volta ha portato i Cinquestelle al ballottaggio nella provincia di Rimini e lo ha vinto. A Cascina – accento sulla a, sezioni del Pci e mobilifici, a un passo da Livorno e Pisa – dopo 70 anni hanno scelto un sindaco di 29 anni, Susanna Ceccardi, il primo della Lega Nord in Toscana, il primo in una zona che vede passare la sinistra (senza centro) con tre quarti dei voti. Il rivale – il sindaco uscente del Pd – l’aveva chiamata “ragazzetta”: lei ha vinto recuperando oltre il 10 per cento. “Basta con la solita litania che siamo fascisti – dice – Stiamo vicino ai cittadini che hanno bisogno, agli sfrattati, ai disoccupati”. A Sesto Fiorentino – terza città della provincia – i renziani volevano l’ampliamento della pista dell’aeroporto di Peretola e un inceneritore, l’altra parte del partito no. A Sesto è venuto a fare campagna anche il presidente del Consiglio e il risultato è che al primo turno il Pd è arrivato primo, Sinistra Italiana seconda (e Rifondazione terza), ma il sindaco sarà Lorenzo Falchi, 35 anni, bancario, cresciuto tra Social Forum e Diliberto. “Questo Pd non lo vuole più nessuno” spiega un ex sindaco della città, Gianni Gianassi.

Il secondo turno delle amministrative ha confermato che gli elettori hanno spezzato le catene, sono sempre più liberi da senso d’appartenenza e tifo, pronti a scaricare chi non li ascolta, chi non li cura. Ma le parole del vecchio sindaco di Sestograd suggeriscono di un partito che cambia e scommette su se stesso fino a perdere tutto ciò che ha puntato, fino allo shock, perché Carbonia – dove ha vinto il M5s – è come dire Livorno. E ai vertici del partito – già dalla direzione di venerdì 24 giugno – si dovranno ora chiedere se vale come ricompensa la breve serie di sorprese impreviste, in città dove vincevano gli altri, sempre. A Varese – che ha generato l’epica della Lega di Bossi – dopo 25 anni hanno scelto un avvocato amministrativista di 39 anni, Davide Galimberti, neofita che ha vinto le primarie contro un ex parlamentare – Daniele Marantelli – soprannominato “leghista rosso”. Oppure in Campania, dove tutto a un certo punto era azzurro libertà: ora il Pd vince duelli con Forza Italia ovunque, Caserta, Casoria, Marcianise, Poggiomarino. O ancora Minturno, caso tutto particolare in provincia di Latina (che ha avuto la sua quota di novità), dove i democratici esprimeranno il sindaco dove mai hanno guidato il Comune.

Quello che spaventa i dirigenti del Partito democratico è che la trasformazione non sempre fa bene. La lezione arriva da VenetoPiemonte, che due anni fa erano i trattori del 40 per cento delle Europee e ora su 17 ballottaggi il Pd era presente in 10 e ha vinto in zero. E nel frattempo si seccano anche i bacini tradizionali. A Finale Emilia, nel Reggiano, e a Pavullo nel Frignano, nel Modenese, vince la Lega Nord, dopo i successi al primo turno in tre paesi della provincia di Piacenza. In Toscana il Pd vince in un solo ballottaggio su 6 (ad Altopascio, dove non aveva mai vinto in trent’anni) e i Cinquestelle non c’entrano niente: vincono le destre, in particolare nella provincia di Arezzo, cioè dalle parti della Boschi e di Banca Etruria. E’ come se gli elettori non capissero più dove il partito vuole andare. Una prima controprova – non scientifica – è ciò che succede in Lombardia, unica regione – con la Campania – dove il Pd sembra tenere (qui ha preso 8 sindaci su 28). Ma qui salta all’occhio che il Pd ha mantenuto spesso l’assetto della coalizione del centrosinistra tradizionale della Seconda Repubblica, a partire da Milano, dove una parte della sinistra ha corso da sola, ma l’altra parte (quella dell’ex sindaco Pisapia) è stato il carburante forse decisivo per la vittoria di Sala.

Gli elettori liberi da ideologie, primo. Il Pd che cambia e perde l’identità, secondo. Ma anche un voto anti-Renzi perché chi governa finisce spesso per essere punito. Lo hanno segnalato Piero Fassino dopo il primo turno e prima del crac, Sergio Chiamparino prima dei ballottaggi, poi Virginio Merola dopo che l’aveva scampata. Il giorno del no al Pd non ha avuto eccezioni geografiche: se fosse davvero solo un test amministrativo, vorrebbe dire che il risultato è il fallimento tutto in pochi anni di decine di amministratori del centrosinistra, da nord a sud. Il Partito democratico presentava un suo candidato in 69 ballottaggi su 121: l’ha spuntata solo in 28 casi. E’ l’esatto contrario del M5s: se i Cinquestelle attirano voti da destra se sfidano quelli di sinistra e voti di sinistra se sfidano quelli di destra (e infatti hanno piazzato 19 successi su 20), per i democratici succede il contrario. Cioè attirano solo porte in faccia perché tutti gli altri pezzi d’elettorato si uniscono.

Lo dicono i risultati scorporati, ma anche le analisi dell’istituto Cattaneo, secondo cui il secondo turno delle Comunali ha segnato il passaggio del M5s da una fase “identitaria” a una fase “politica”. Se, soprattutto fra il 2012 e il 2013, gli elettori grillini si rifugiavano nell’astensione per paura di essere contagiati da un voto diverso dal proprio ora gli elettori a 5 stelle vanno a votare di più e lo fanno secondo gli obiettivi politici del Movimento, in questo caso ostacolare il governo Renzi. L’istituto prende ad esempio Novara: qui, secondo i calcoli del Cattaneo, il 40 per cento degli elettori del M5s ha scelto il centrodestra, il 21 il centrosinistra, il 38 si è astenuto. A Bologna gli astenuti sono stati il 45 per cento, ma il 42 ha votato la Borgonzoni. Proporzioni simili a Grosseto. Insomma, si tratta di un travaso di voti tra centrodestra e M5s. L’esempio più chiaro è quello di Torino, dove Fassino ha preso più o meno gli stessi voti al primo e al secondo turno (160mila e poi 168mila), mentre la Appendino è passata da 118mila a 202mila.

Ed è questo – più che aver perso Cascina o Carbonia, a Domodossola o Vittoria – che rischia di preoccupare il presidente del Consiglio e il governo. L’Italicum è la legge che mette più in pericolo il Pd. E il referendum costituzionale ha sempre più le fattezze di un ballottaggio. E Renzi deve capire se può finire come a Bologna o come a Torino.

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