Chissà se Ernesto Galli della Loggia si pentirà del suo recente e inaspettato sostegno a favore di un populismo progressista ora che un Cesare democratico potrebbe essere finalmente spuntato anche in Italia. L’impetuosa vittoria di Luigi De Magistris a Napoli ci consegna un attore politico della razza invocata dallo storico romano, capace di stabilire una connessione sentimentale con il suo popolo, avvezzo alla frase ad effetto, estraneo al grigiore dei discorsi istituzionali, non privo di un felice senso del funambolesco. Ma soprattutto a capo di un esperimento politico fatto di partecipazione popolare, orizzontalità, riscatto dei subalterni, riconquista degli spazi pubblici.

Insomma, De Magistris sfonda in quell’area anti-establishment che si pensava presidiata del M5s. Un bisogno di antagonismo che in tempi di crisi si acuisce, divenendo prioritario rispetto alla forza politica che lo incarna. L’affermazione di De Magistris segnala con chiarezza che quel “mercato” politico non è del tutto saturo: è in realtà abbastanza fluido e, forse, ancora alla ricerca del suo miglior rappresentante. Vale per questo la pena di soffermarsi sul ruolo del Cesare. L’emergenza di un leader non è un fenomeno ascrivibile al dispotismo o al narcisismo, ma – come vuole Freud – è sempre un incontro a metà strada: il leader sarà tale solamente se presenterà una serie di tratti che condivide con chi lo segue. Il leader quindi non è altro che un primus inter pares che funge da punto di aggregazione di rivendicazioni e inquietudini che, altrimenti, non tenderebbero all’unione.

In tal senso, se De Magistris punta a egemonizzare il campo anti-establishment deve sintetizzare nella sua figura un disagio che il M5s non è ancora riuscito a fotografare. È lì che radica la vera cifra del carisma: lungi dall’essere sinonimo di ascendenza, il carisma è piuttosto un fenomeno relazionale che consiste nel portare alla luce malesseri occlusi dal conformismo, rendendo quindi dicibile ciò che prima non lo era. Ora, l’opinione pubblica ha ormai da decenni focalizzato l’attenzione sulla questione morale, rendendola il punto di rottura più immediato. Il populismo di De Magistris non può prescindere dall’occupare questo spazio discorsivo, ma per operare uno smarcamento decisivo deve accentuare il discorso del basso contro l’alto. Non si tratta dell’attacco generico alle lobby, bensì di un j’accuse molto più potente e articolato contro precarietà del lavoro, austerità, crescente disuguaglianza, sequestro oligarchico delle istituzioni e, di riflesso, contro tutti gli attori politici, ma soprattutto sociali ed economici, che sostengono questo sistema.

Naturalmente il percorso di De Magistris, che in una recente intervista paventava la creazione della Podemos italiana, non è privo di ostacoli. Qualche giorno fa, Roberto D’Agostino delineava con tracotanza il massimo raggio di irradiazione della retorica di De Magistris: “Al massimo arriva fino a Fondi”. Certo, per ora è difficile immaginare che il primo cittadino partenopeo faccia incetta di voti nelle campagne di Veneto e Lombardia, anche perché il suo discorso elettorale era tagliato per la realtà napoletana. Tuttavia, se De Magistris cova realmente pretese nazionali, farà bene ad ampliare il repertorio, rifuggendo le suggestioni di un discorso sudista che a Vendola costò caro, cercando piuttosto di incarnare un ampio orizzonte di redenzione nazionale.

Parimenti, il suo esperimento ha chance di sbocciare se riuscirà a mantenere sistematicamente lontani i ceti dirigenti e intermedi della sinistra, a rischio sopravvivenza dopo l’ennesimo smottamento di voti. Il sindaco di Napoli dovrà quindi aver cura di aggirare le trappole dell’aperitivino radical-chic e dei grossi paroloni novecenteschi che riempiono la bocca e conferiscono purezza. Sarebbe come gettare al vento ciò che ha fatto e che la sinistra è ormai incapace di fare: creare “popolo”, andare oltre il recinto dei convertiti, articolando settori eterogenei accomunati dal fatto di vedere le proprie rivendicazioni sistematicamente frustrate. L’abbraccio mortale che la sinistra storica tenderà ora a De Magistris rischia di affossare – se non rifiutato in tempo – questa fortunata intuizione. Il fatto è che dell’appello apodittico di bisogno di sinistra che viene da quelle fila non frega niente a nessuno. Nessun momento di rifondazione democratica passa per l’esaltazione di un’identità corporativa e incapace di aggregare al di là di confini già noti. Ogni buon Cesare lo deve tener ben presente.
@mazzuele

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