La TED fellowship, la start up, l’accademia. Laura Indolfi, 36 anni di Napoli, è senza sosta. Dal salotto della sua casa di Boston, circondata di fiori rossi, Laura racconta la sua storia e se la ride: “Non chiamarmi cervello in fuga, eh”, precisa subito, ostile al concetto di fuga o di resa. Nel 2008, dopo una laurea in ingegneria dei materiali e un dottorato in biomateriali, entrambi alla Federico II di Napoli, Laura si è trovata davanti ad una scelta importante. Continuare con contratti a rinnovo annuale nella sua università, oppure la possibilità di vincere un anno di borsa di studio all’estero per un post dottorato, a condizione di trovare un laboratorio che scommettesse su di lei per i due anni successivi. Il MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston accetta, e sette anni fa Laura è partita per gli Stati Uniti. Al postdoc, Laura aggiunge un periodo di ricerca al Massachusetts General Hospital e un semestre alla Sloan, la scuola di business del MIT. “La ricerca mi piace, ma anche l’aspetto commerciale mi interessava, quindi mi sono iscritta. I costi sono pazzeschi, ma se alla fine del semestre i tuoi voti sono meritevoli ti viene rimborsato l’80% della spesa. Ho voluto vedere se ero portata, e alla fine è andata molto bene. Mi ha dato molti contatti che ultimamente si sono rivelati utilissimi”.

Nel frattempo infatti Laura ha accantonato la carriera accademica per avviare una start up, PanTher Therapeutics. Sin dal dottorato, si era occupata di rilascio controllato dei farmaci da dispositivi per applicazioni cardio vascolari, quindi al MIT venne coinvolta anche in un progetto più o meno attinente al suo campo: nello specifico, si trattava di disegnare un dispositivo per il rilascio di farmaci per il tumore al pancreas. La ricerca è stata recentemente pubblicata sulla rivesta leader del settore, Biomaterials, e dimostra che l’uso del dispositivo per un trattamento localizzato è 12 volte più efficace della terapia sistemica nel controllare la progressione della malattia. Presto quella che doveva essere un’attività marginale divenne, come dice lei, la sua vita.

“La barca ad un certo punto si è rovesciata, bisognava decidere se mantenere un progetto puramente accademico o trasformarlo in un prodotto commerciale. Io ho spinto per provarci, assumendomene la responsabilità. Ora sono amministratore delegato della nostra start up. Certo, è ancora una realtà piccola, quindi faccio anche laboratorio e vado a parlare con gli investitori”.

Il mercato, per ora, ha dato ragione all’intraprendenza di Laura. Ecco perché la sua start up è stata selezionata per finanziamenti sia del MIT che di altri enti, al punto che ora sta prendendo la sua strada lontano dall’accademia. Dopo aver consolidato la tecnologia nei laboratori e aver verificato che c’è richiesta sia fra gli oncologi che fra i pazienti, ora bisogna validare il prodotto a livello clinico. “Se a livello animale ha funzionato, bisogna poi accertarsi che possa essere impiantato anche negli esseri umani. La strada è lunga, ma ci stiamo lavorando.”

L’idea di tornare in Italia fa sospirare Laura: “Che si vada all’estero non deve essere considerato un problema. Anzi, è normale e può creare nuove opportunità fra l’Italia e l’estero. Quello che invece non va bene è che manchi una progettualità, il desiderio di investire nella ricerca per far sì che si attraggano stranieri e che torni chi è stato fuori. Qui professionalmente sono contenta, ma come tutti gli italiani all’estero vivo nell’ansia che tornare sarà molto difficile, oppure solo al prezzo di grossi sacrifici. Gli Stati Uniti hanno offerto grandi possibilità a me e ai miei amici stranieri, ma loro vivono più serenamente il futuro, non hanno paura di non poter mai più tornare. Per noi italiani spesso è motivo di angoscia. Nel mio caso, probabilmente per ora non ci sono spazi per una start up come la mia, ma se un giorno si creassero sarei felice di tornare a casa”.

All’Italia, però, Laura vuol dare credito di una cosa essenziale: “Quando hanno scritto il mio profilo come TED fellow, come provenienza ho fatto scrivere Italy-Usa: è vero che faccio ricerca negli Stati Uniti e risiedo qui da molti anni, ma se ora sono quel che sono è anche per merito delle possibilità che mi ha dato il mio Paese, dell’investimento che ha fatto su di me”.

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