Bollette della Tari a cinque o sei zeri pagate senza ricevere un servizio adeguato. A volte anche in cambio di nienteDa Nord a Sud, diverse aziende italiane sono sul piede di guerra per una tassa, quella dei rifiuti, che continua a lievitare e che spesso è sganciata dal reale servizio ricevuto dal Comune. “Negli ultimi cinque anni i rifiuti sono diminuiti del 10,1 per cento – denuncia il presidente di Confartigianato Giorgio Merletti – ma per la loro raccolta gli italiani hanno pagato il 22,7 per cento in più. C’è qualcosa che non va. Le tariffe dei servizi erogati da soggetti pubblici devono rispettare il mercato e non possono essere una variabile indipendente, troppo spesso utilizzata per fare cassa e mettere a posto i guasti di una cattiva gestione“. 

La Tari a parole si avvicina a un corrispettivo per un servizio, ma nella pratica continua ad assomigliare a una patrimoniale. Per calcolarla, infatti, ci si basa sulla superficie calpestabile, senza tenere conto di quanti rifiuti in realtà una famiglia o un’impresa produce. “Le banche, per esempio, producono solo un po’ di carta – spiega Giorgio Ghiringhelli, esperto in gestione dei rifiuti – ma sono grandi contributori. I fruttivendoli, al contrario, conferiscono grandi quantità di rifiuti organici, ma spesso pagano poco perché hanno negozi piccoli”. Non solo. Come spiega l’avvocato Mara Chilosi, specializzata in legislazione ambientale e alle prese con una decina di ricorsi di imprese ai giudici tributari in varie città d’Italia, “molte aziende hanno grossi magazzini di merci e prodotti finiti che pur non producendo rifiuti pagano molto a causa della loro estensione”.

Il rebus dell’assimilazione e i costi raddoppiati
In tempi di continui tagli dei trasferimenti statali, la Tari può rivelarsi così in certi casi una miniera d’oro. Una strategia su tutte per farla fruttare di più si nasconde nella pratica che tecnicamente si chiama “assimilazione”. Cos’è? Il concetto è semplice: i rifiuti esclusi per legge dalla gestione pubblica possono esservi fatti rientrare con un semplice cambio di etichetta. Lo stabiliscono i Comuni con un regolamento: succede così che molti tipi scarti prodotti in una manifattura o un laboratorio, e dunque per questo rifiuti speciali, fuori dal raggio d’azione degli enti locali anche se non pericolosi, vengono sulla carta “assimilati” agli urbani, quelli cioè gestiti direttamente dai Comuni. In questo modo le superfici dove si producono vengono di conseguenza assoggettate alla Tari. A questo dovrebbe corrispondere anche un servizio effettivo, ma non sempre il Comune lo assicura. In poche parole: più assimili, più tassi, senza offrire sempre un servizio in cambio. “Le imprese sono state viste come soggetto che crea gettito”, secondo Ghiringhelli.

Uno degli aspetti principali su cui l’avvocato Chilosi sta dando battaglia è proprio questo: “Secondo la legge dovrebbero essere assimilati solo i rifiuti speciali paragonabili, per tipologia e quantità, ai rifiuti urbani, ossia agli scarti prodotti dalle famiglie. In certi casi i Comuni mettono un limite quantitativo, ma non assoluto come la legge imporrebbe”. Il risultato è che gli enti locali ritirano fino a una certa quantità, l’altra parte l’azienda se la deve gestire, ma deve pagare lo stesso per tutti i rifiuti, non solo per quelli effettivamente ritirati.

In altri casi, continua l’avvocato, “le amministrazioni comunali non mettono limiti: così tassano interamente le superfici aziendali senza poi essere capaci di offrire un servizio adeguato e talvolta, addirittura, non svolgono alcun servizio. In entrambi i casi il risultato è il medesimo”. Cioè, dice una risoluzione di dicembre 2014 del ministero dell’Economia in risposta al quesito di un’azienda siderurgica, “una ingiustificata duplicazione dei costi, poiché i soggetti produttori di rifiuti speciali, oltre a far fronte al prelievo comunale, dovrebbero anche sostenere il costo per lo smaltimento in proprio degli stessi rifiuti”.

“Le aziende come vacche da mungere”
Il documento del ministero dell’Economia chiarisce come interpretare il comma 649, articolo 1, della legge di Stabilità 2014, cioè quello che ha introdotto la Tari. Nel testo, in realtà, per prevenire almeno in parte il problema si prevede che non venga tassata la parte di superficie aziendale “ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori”. Non solo: la legge dice anche che “il Comune individua le aree di produzione di rifiuti speciali non assimilabili e i magazzini di materie prime e di merci funzionalmente ed esclusivamente collegati all’esercizio di dette attività produttive, ai quali si estende il divieto di assimilazione”, e quindi il divieto di imporre la Tari.

Da parte sua, l’Istituto per la finanza e l’economia locale di Anci, l’associazione dei Comuni italiani, ribatte in un documento che “non si pone il problema della tassabilità” delle aree produttive e dei magazzini dove si producono rifiuti speciali assimilati a quelli urbani, perché semplicemente “per tali zone vige l’obbligo di conferimento al servizio pubblico e le superfici devono essere assoggettate al tributo, e ciò anche nel caso in cui il produttore dimostri di provvedere a proprie spese allo smaltimento della totalità dei rifiuti prodotti”.

Situazione simile si verifica anche nel caso dei cosiddetti “imballaggi terziari”, quelli cioè utilizzati per il trasporto delle merci, come i bancali in legno: per Chilosi “vige il divieto di assimilare gli imballaggi terziari a quelli conferiti dalle famiglie nella raccolta differenziata, ma alcuni Comuni lo fanno lo stesso, per fare cassa, facendo leva sul fatto che la normativa non è coordinata e quindi il codice Cer che serve ad identificare il rifiuto non è univoco”. L’Ifel anche su questo, in un altro documento sulla Tari pubblicato nel 2014, sostiene invece che “tale certezza (della non assimilabilitàndr) è messa in crisi” da una norma del 2008, che rende possibile l’assimilazione anche in questi casi. Il pallino, insomma, rimane in mano ai Comuni, che facendo riferimento a una delibera interministeriale vecchia addirittura di 32 anni possono dire sempre l’ultima parola su ciò che è assimilabile. E dunque tassabile.

Dialogo (im)possibile
Qualche spiraglio aperto per le aziende ci sarebbe. “Le imprese possono ottenere un’esenzione delle superfici quando dimostrano che non producono affatto rifiuti o non producono rifiuti assimilabili. Oppure una riduzione della parte variabile della tariffa, come prevede la legge di stabilità 2014, in proporzione alle quantità di rifiuti speciali assimilati che il produttore dimostra di aver avviato a recupero, direttamente o tramite soggetti autorizzati”, spiega Chilosi. Benefici che però “non sempre si ottengono facilmente: per il recupero, per esempio, certi Comuni non concedono la riduzione se gli scarti vengono conferiti agli impianti con la causale dello stoccaggio, da cui poi partirà il processo di rigenerazione. I contenziosi sono partiti anche per queste criticità e per la difficoltà di dialogare con gli enti locali. Anzi, secondo la mia esperienza, l’avvio del contenzioso è, purtroppo, molto spesso l’unico modo per instaurare un dialogo fra l’impresa-contribuente e l’amministrazione”.

La situazione non è uniforme: “Ci sono Comuni che mantengono aperto il confronto con le imprese e cercano di trovare una soluzione, altri che si chiudono sulle loro posizioni. Una delle aziende che seguo ha una sede in Toscana e una in Veneto, con condizioni opposte: da un lato chiusura totale, dall’altro un percorso di contraddittorio che ha portato a una soluzione equa per entrambi”, aggiunge l’avvocato. Lo stesso ministero, con il linguaggio barocco tipico della burocrazia, nella sua risoluzione consiglia agli enti locali di “avviare una serie di consultazioni” per “evitare, all’origine, l’insorgere di un inutile e defatigante contenzioso”.

Pay as you throw, paga quanto getti
Maggiori benefici per le aziende dovrebbero arrivare dall’applicazione della tariffa puntuale, quel sistema cioè che permette ai cittadini di pagare in proporzione ai rifiuti indifferenziati che finiscono nella loro pattumiera. Oggi secondo l’associazione Payt (Pay as you throw) è in vigore in circa il 15 per cento dei Comuni. “Ha il vantaggio dell’equità, perché si crea una distribuzione degli oneri proporzionale ai volumi di rifiuti prodotti. Gli effetti del passaggio dalla Tari alla tariffa puntuale sarebbero maggiori per utenze non domestiche che pagano in base ai metri quadri: in questo campo si vedrebbe un riequilibrio”, spiega il presidente di Payt Gaetano Drosi. Entro l’inizio di febbraio 2017 il ministero dell’Ambiente dovrebbe emanare un decreto che introduce criteri omogenei di assimilazione dei rifiuti e uniforma i sistemi di tariffazione puntuale: “Non renderà obbligatoria la tariffa puntuale, ma potrà aiutare la sua diffusione. Speriamo arrivi entro l’anno, in modo che i Comuni interessati possano già applicarla dal 2017”.

Articolo Precedente

Ilva, ‘l’immunità penale’ a chi inquina e i tarantini inascoltati

next
Articolo Successivo

Migranti ambientali: perché di loro non parla nessuno?

next