Ilvo Diamanti su Repubblica presenta qualche dato sulla declinante partecipazione degli italiani alle consultazioni elettorali, poi ci rassicura: “Non c’è nulla di cui allarmarsi. L’astensione non è una minaccia che incombe sulla nostra democrazia. È, invece, fisiologica. Anche se, fino agli anni Novanta, in Italia votavano tutti… A Londra, di recente, è stato eletto sindaco il laburista di origine pachistana Sadiq Khan. Ha votato meno della metà degli aventi diritto. Ma a nessuno è venuto in mente di discutere legittimità del voto. Né il fondamento della democrazia in Inghilterra”.

Aggiunge Diamanti: “Se votare è un diritto e lo è anche non votare. Chi non vota accetta – e subisce – la scelta di chi vota”, e su questo siamo d’accordo. Ma è difficile condividere l’ottimismo di Diamanti sulle cause dell’astensionismo e sui suoi effetti.

Le elezioni sono il meccanismo principe della democrazia. Consentono al popolo non solo di scegliere i propri rappresentanti, ma anche di premiarli o punirli con la riconferma o meno, quindi di sottometterli ai loro interessi, valori, priorità. La somma dell’interesse di tanti fa l’interesse generale. Ma se i tanti diventano pochi, gli interessi rappresentati saranno sempre più ristretti, con grave danno per l’equità e la crescita economica. Negli Usa le classi popolari votano poco: le tasse sui ricchi sono molto basse e le disuguaglianze marcate. Inoltre il non voto può indurre qualche politico a pensare di abolire le elezioni (dirette dei rappresentanti nelle assemblee legislative), magari per una sola camera (per iniziare).

Ma oltre ad essere dannoso per il sistema politico, un basso tasso di affluenza può essere la spia di qualcosa che non va nella democrazia. Certo le cause possibili sono diverse; perciò i trend in atto si prestano a varie legittime interpretazioni. Basta ricordare che in molti regimi non democratici la partecipazione elettorale è alta grazie alla coercizione e alla mobilitazione di regime.

Tuttavia, in generale, l’astensione cresce quando gli elettori percepiscono o che la posta in gioco è bassa, oppure che il voto popolare non avrà molta influenza sulle scelte dei politici. Il primo caso è quello che ha in mente Diamanti: “Fino agli anni 90… il voto rifletteva ideologie politiche profonde e radicate. Poi è caduto il muro di Berlino…”. Insomma: oggi le nostre società sono più coese, non ci sono scelte drammatiche da fare, la libertà è al sicuro, perciò pochi si prendono la briga di votare. Può valere per la Gran Bretagna ed altri paesi, ma qui da noi (e non solo) questa spiegazione rischia di nascondere una strisciante crisi di rappresentanza.

Quando il grado di democrazia è basso e il grado di autoritarismo alto, quando la democrazia è solo formale, le istanze popolari vengono ignorate. Mi pare che questo possa essere un po’ il caso dell’Italia. Per esempio: se chiedete agli italiani se ritengono che “i politici”, o “i parlamentari” o “i parlamentari europei” guadagnano troppo, oltre il 90% vi risponderà di sì. C’è da anni (almeno dal 2007, quando uscì il libro ‘La Casta’) su queste cose una forte domanda di cambiamento degli elettori, e ciononostante gli stipendi dei politici a tutti i livelli di governo non scendono, anzi. Si può dire che, in un paese dove l’interesse e la volontà dei governanti prevale su quella degli elettori, ci sia un alto tasso di democrazia? Non credo. Ed è solo un piccolo esempio. Ma se la volontà del popolo non orienta le decisioni dei cosiddetti rappresentanti, se ‘tanto nulla cambia’, perché uno dovrebbe votare? 

Dove la divisione fra i poteri dello Stato è scarsa – i controlli sull’Esecutivo sono scarsi perché l’Esecutivo ‘controlla’ gli altri Poteri -, i politici tendono ad abusare del potere, a fare i propri interessi, la corruzione è endemica in ogni livello di governo, le riforme non sono quelle annunciate in campagna elettorale, le elezioni sono l’unico momento che conta e le cordate locali, i capibastone, e il voto di scambio, oltre al rapporto diretto fra leader e popolo sui mass media, ne determinano l’esito. In queste situazioni si deteriorano la qualità della governance e il senso civico (Schedler et al., 1999).

Fortunatamente in Italia queste cose non succedono. Ma a scanso di rischi, l’astensionismo forte, che si registra in alcune città, dovrebbe suggerire riforme istituzionali volte a rafforzare la rappresentanza, la separazione fra assemblee elettive e poteri esecutivi, la democrazia nei partiti, l’informazione sui candidati, e altri controlli di varia natura sui politici eletti.

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