Mentre il prezzo del greggio riprende quota e torna a toccare quota 50 dollari al barile, gli osservatori guardano a giovedì, quando l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) si riunisce a Vienna per decidere la nuova strategia su domanda e offerta petrolifera. Un vertice a cui i produttori si presentano però sempre più spaccati, lasciando spazio al contrattacco di quei Paesi che sono stati danneggiati dalle loro strategie.

In prima fila ci sono gli Stati Uniti, che hanno pagato un prezzo molto pesante per la decisione saudita di non ridurre la produzione. Sono fallite infatti molte aziende attive nell’estrazione di gas e petrolio dalle rocce (shale), con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. Il Financial Times riferisce che ora il Congresso americano vuole una commissione d’inchiesta sull’Opec, accusata di voler estromettere i concorrenti e di monopolizzazione il mercato dell’oro nero. “Vogliamo essere sicuri che i nostri concorrenti giochino una partita nel rispetto delle stesse regole”, ha detto il repubblicano Kevin Cramer, promotore dell’iniziativa.

Ma il vero affondo è arrivato nei giorni scorsi dalla Russia, anch’essa danneggiata dal ribasso delle quotazioni, visto che gran parte della sua spesa pubblica dipende dalle esportazioni di idrocarburi. Igor Sechin, amministratore delegato dell’azienda petrolifera Rosneft e vicinissimo a Vladimir Putin, è arrivato a dire che l’Opec “ha praticamente smesso di esistere come organizzazione unitaria”. Secondo Sechin, i prezzi del greggio non dipendono dall’azione dell’organizzazione ma dalle leggi del mercato.

C’è da dire tuttavia che la levata di scudi contro l’Opec trova terreno fertile soprattutto grazie alle tensioni interne, in particolare tra sauditi e iraniani per il controllo dello scacchiere mediorientale. Le stesse tensioni che hanno già fatto saltare ad aprile l’accordo sul congelamento della produzione al vertice di Doha. Arabia Saudita, Russia, Qatar e Venezuela avevano dichiarato che non avrebbero aumentato la produzione di petrolio al di sopra dei livelli di gennaio, ma a patto che gli altri produttori avessero fatto lo stesso. L’Iran però, membro dell’Opec, ha opposto un netto rifiuto, rispondendo che avrebbe continuato ad aumentare la sua produzione a livelli pre-sanzioni.

Le divisioni tra Paesi produttori fanno ritenere a molti osservatori che giovedì non verranno prese decisioni importanti. Nessuno quindi si aspetta tagli o congelamenti della produzione. Tra l’altro, la risalita a 50 dollari al barile del petrolio va contro l’interesse dell’Arabia Saudita, che da tempo spinge per non ridurre la produzione, facendo così crollare il valore del greggio e mettendo fuori mercato i concorrenti. E non aiutano le recenti previsioni dell’Opec secondo cui ci sarà un ulteriore rialzo dei prezzi a causa del calo della produzione dei paesi non Opec, che potrebbe addirittura condurre a un ribaltamento della situazione, determinando un “deficit netto” di rifornimenti nel 2017.

L’unico elemento di novità sarà probabilmente l’esordio di Khalid al-Falih come ministro del petrolio dell’Arabia Saudita al posto di Ali al-Naimi. Il giorno dell’insediamento il neo ministro ha dichiarato di voler realizzare gli obiettivi del Saudi Vision 2030”, il piano che dovrebbe permettere al Paese di ridurre la dipendenza dall’oro nero attraverso la creazione di un fondo sovrano e la cessione di una quota di Saudi Aramco, la compagnia petrolifera controllata dallo stato saudita.

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