L’ultima conversione in materia di teoria economica viene dal Fmi che, nella sua ultima pubblicazione Neoliberismo: sopravvalutato?, fa una diagnosi piuttosto estesa degli effetti delle politiche economiche neoliberiste praticate in Europa e nel mondo negli ultimi 30 anni. Ad essere messi in discussione oggi sono gli effetti e soprattutto l’efficacia di questa impostazione economica, di fronte ad un crescente aumento delle diseguaglianze sociali e alla persistente stagnazione della crescita. Il paradigma neoliberista della nuova macroeconomia classica trovò ampio spazio accademico nella seconda metà degli anni 70, quando Milton Friedman fondò la celebre scuola di Chicago, la fucina del pensiero neoliberista, la risposta accademica al keynesismo che all’epoca era la dottrina economica di riferimento di molti accademici e dei governi dell’epoca. Ora, in questa sede, non interessa tanto affrontare il dibattito tra keynesismo e neoliberismo, quanto prendere atto degli inaspettati cambi di visione dell’istituzione che più ha abbracciato il paradigma neoliberista.

Non vengono rimessi in discussione tutti i capisaldi di questa scuola economica. Ad esempio, non vengono ridiscussi i dubbi vantaggi che le privatizzazioni avrebbero portato, di fronte soprattutto alle evidenze empiriche che dimostrano come i costi dei settori pubblici siano aumentati, e come l’efficienza dell’erogazione di questi sia rimasta invariata se non addirittura peggiorata. Gli economisti del Fondo mettono al centro della loro analisi due aspetti in particolare: il primo è il dogma della libera circolazione dei capitali, un tempo bastione incrollabile della teoria neoliberale, oggi rimesso in discussione per i suoi effetti deleteri tendenti a creare bolle del debito speculative, e di questi ne siamo stati testimoni diretti per averli sperimentati direttamente negli anni passati agli inizi della moneta unica; il secondo è rappresentato dalle politiche fiscali pro cicliche presentate proprio dall’ex capo economista del Fondo, Olivier Blanchard, come la panacea dei mali dell’alto debito pubblico degli stati dell’Eurozona.

Ora non si parla più dei benefici dell’austerità espansiva, la celebre (o famigerata) teoria di Alberto Alesina, ma di sunk cost, ovvero di costo irrecuperabile del debito. Il trade-off tra benefici e costi, in un’ottica di riduzione del debito pubblico, pesa decisamente di più su questi ultimi. Piuttosto che continuare a perseguire degli avanzi primari, si nota nell’analisi, è decisamente più conveniente cercare di ridurre il debito pubblico tramite politiche anticicliche espansive, spingendo verso l’alto la crescita economica. In pratica, tentare di ridurre il debito (ad esempio) dal 120% al 100% del Pil, non solo erode una parte importante della spesa pubblica produttiva, ma si rivela un boomerang dal momento che i benefici di queste politiche sono limitati, o meglio non ci sono proprio perché, come sperimentato nella crisi dei debiti sovrani dell’eurozona, questo tipo di politiche ha prodotto un aumento del debito e non viceversa.

In altre parole, il Fondo ci sta dicendo che tutto quello che abbiamo fatto nell’Eurozona negli ultimi 7 anni è stato completamente inutile, e ancor peggio dannoso. In realtà era stato detto anche da importanti economisti eterodossi italiani, ma il fatto che lo faccia l’istituzione un tempo più agguerrita nell’applicazione di queste politiche, fa un certo effetto. Mentre per quello che riguarda la liberalizzazione dei capitali non solo, come si accennava prima, l’economia domestica che riceve questi flussi incontrollati si espone a un consistente aumento del rischio di crack finanziari, ma si verificano molto spesso degli aumenti di diseguaglianza nella distribuzione del reddito in paesi che già di partenza soffrono di diseguaglianze piuttosto marcate. Come dimostra lo stesso studio presentato dal Fmi, su 150 afflussi di capitali verso 50 economie emergenti, nel 20% dei casi si è verificato un crack finanziario, un consistente calo della produzione e un inevitabile ampliamento della disuguaglianza sociale.

A questo punto, se persino il Fmi inizia a sollevare importanti riflessioni sull’efficacia e la validità del neoliberismo, ci si chiede se non sia veramente il caso di voltare pagina con l’esperienza storica del neoliberismo economico, che domina l’agenda di tutti i governi occidentali da troppi decenni. Secondo il Financial Times, piuttosto contrariato dalla nuova attitudine del Fondo, non è affatto giunto il momento di mettere in soffitta Friedman e bisogna pensare piuttosto ad aumentare la produttività. Eppure la produttività negli Stati Uniti è cresciuta dal 1973 al 2013 del 72%, mentre i salari nello stesso periodo solamente del 9%. E’ del tutto evidente che c’è uno squilibrio che può essere sanato solamente con una redistribuzione del profitto a vantaggio delle quote salari. Il Fondo quindi, molto furbescamente, tenta di smarcarsi da una situazione compromessa nella quale esso ha avuto un ruolo di primo piano, e ha intuito che la forbice tra le classi sociali oramai è troppo alta, quando le disuguaglianze prodotte dal neoliberismo economico sono insostenibili. Se non si cambia al più presto, il sistema economico andrà incontro ad un altro shock inevitabile.

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