A oltre centocinquanta giorni dal voto referendario e a una decina da quello amministrativo in alcune delle più importanti piazze nazionali; mentre i nodi della decadenza industriale arrivano al pettine con il crollo degli ordinativi nell’inizio d’anno (e perché mai dovrebbe andare diversamente, visto che il declino non è stato mai affrontato da un governo capace solo di somministrare tranquillanti e droghe pesanti?); mentre una città come Firenze, contenitore di straordinarie bellezze, rivela tratti di degrado da abbandono con effetti di putrescenza del tessuto urbano; mentre i meno sfiniti francesi hanno ancora la forza di esprimere sulla Loi Travail tutta l’indignazione che gli ormai rassegnati italiani non hanno più l’energia di manifestare contro l’omologo Jobs Act; mentre tra un Grexit evitato per un pelo e un Brexit in arrivo sta esplodendo il grande contenitore sovranazionale e il nostro premier non manifesta interesse al riguardo; mentre le scadenze in arrivo si accavallano drammaticamente, il pollaio dell’italica politica parla esclusivamente di riforme costituzionali/elettorali.

Diciamolo francamente: la scadenza di un ottobre ancora lontano come palese diversivo per depistare da questioni che si preferisce sfuggire e appuntamenti giudicati a rischio, di cui si vorrebbe nascondere l’importanza. E così è venuta creandosi la situazione grottesca di questa partita poco del cuore “Matteo contro il resto del mondo”, che relega nell’insignificanza il contenuto delle stesse questioni in ballo; con il decisivo contributo della cheer-leader Maria Elena Boschi, delegata a intorbidare le acque con battute provocatorie e inopportune nelle aule universitarie (coadiuvata dall’ancora più inopportuno e genuflesso preside dell’Ateneo catanese nel mettere a tacere un giovane critico).

Un florilegio di egocentrismi irresponsabili di cui il più pericoloso sembra essere questo avanzare della centralizzazione attorno alla figura di Matteo Renzi di tutti i problemi, riducendoli alla scelta secca “o con me o contro di me”. Scelta pericolosa, perché l’italiano è un popolo che magari non si scalda troppo per le questioni di principio ma tende a stufarsi facilmente. E il nostro premier sta davvero stufando. Soprattutto affoga nella sua iomania/egolalia un concetto prezioso che andava facendosi avanti nel dibattito pubblico, in seppure tardiva sintonia con quanto da tempo va discutendosi nelle piazze politicamente più avvedute del mondo: la questione di riformare la democrazia malata partendo dal basso, dalle città. Discussione di verso esattamente contrario al titanismo renziano di sussumere nell’uomo forte/solo l’intero processo decisionale; dunque postdemocratico.

Una follia dal punto di vista di una ragionevole riorganizzazione della governance democratica, che rientra perfettamente negli orizzonti campanilistici di chi ha come modello di riferimento le Signorie, segnatamente quella medicea, e gli immortali insegnamenti sulla governabilità di una tradizione che si rifà a Benito Mussolini e venne rilanciata da Bettino Craxi negli anni Settanta. Un dibattito che sarebbe giudicato surreale in Paesi che ospitano città all’avanguardia nella ricostruzione di un rapporto fiduciario tra eletti e corpo sociale, come la Barcellona della nuova sindaco, l’alcaldesa Ada Colau (a cui il mio amico Giacomo Russo Spena ha dedicato il suo ultimissimo saggio: “Ada Colau – la città in comune”, editore Alegre). Ossia, al grido del “sì, se puede”, l’idea di un municipalismo che rinverdisca la partecipazione civica attraverso la prossimità tra istituzioni e cittadini.

Difatti le idee promosse dal programma “Barcelona en comun” sono esattamente il contrario del paternalismo reazionario della coppia di arrampicatori a braccetto Boschi&Renzi; della solitudine del potere che perseguono pervicacemente. Malamente contrastati da chi – come Virginia Raggi – sacrifica la propria autonomia civica sull’altare di una sottomissione a un’entità esterna ossessionata solo dal mantenimento del controllo sul proprio spazio politico.

Quanto è lontana la Catalogna!

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