Montedoro, di Antonello Faretta, non è solo un film bello, ma è anche un film coraggioso e necessario. Provo a spiegarvi perché…
La storia di Porziella (interpretata da un’intensissima Pia Marie Mann), orfana lucana adottata da una coppia di americani, che torna dopo decenni nel luogo della sua infanzia (il paese abbandonato di Montedoro, in Lucania), è un film fatto di silenzi e poche, intensissime parole, dove una parte di dialoghi è lasciata ai suoni della natura e del tempo che passa. Dai versi degli animali che popolano ogni sua inquadratura, i corvi, le capre, gli agnelli, i cavalli, gli uccelli e gli insetti che abitano le montagne aspre e aggressive della Basilicata, ai versi dei pastori che si fanno puro suono, sibilo, schiocco, per comunicare con i sassi e con le bestie.

È un film in cui in ogni paesaggio si possono scorgere gli elementi antichissimi di ogni realtà: fuoco, aria, terra, acqua. A Montedoro l’uomo uccide gli animali, eppure li rispetta. L’uccisione dell’agnello è ancora parte di un mito originario. È innocente. È l’assassinio che – girardianamente – fonda l’innocenza di ogni comunità. E legittima il suo desiderio di bellezza. A Montedoro (come sempre nel nostro sud) le donne vestono di nero, non per lutto, ma per compassione. Montedoro è il racconto della presa di coscienza, non solo delle radici, ma di ciò che quelle radici portano con sé: culture, usi, tradizioni, misteri, paure, violenza, sogni. E le parole degli uomini sono poche, essenziali e – circondate come sono di silenzio – acquistano una valenza “mitica”, fanno memoria, ma, rammentando, interpretano tanto il passato quanto il presente.

Da questo punto di vista, Montedoro è un film “greco”, è territorio di tragedie originarie, di valori fondanti che lentamente si spengono, erosi dalla morte di un futuro che, invece di inglobarle, le espelle dimenticandole; di agnizioni che tolgono ogni speranza, e donano senso ad ogni sconfitta. Ed è anche un film profondamente “australiano”, con la sua natura magica, minacciosa, prepotente, brutale ed essenziale. Così, seguire sullo schermo il percorso che porta Porziella a riscoprire le sue radici mi ha fatto venire in mente certi versi di Ritsos e una battuta di un film australiano che amo molto: Picnic a Hanging Rock, di Weir: «c’è un tempo e un luogo perché ogni cosa accada». Io, che da quelle terre provengo, in quel meridione sono nato, guardandolo, mi sono sentito completamente “aborigeno” e totalmente ellenico: e mi sono riconosciuto. Io non so se esistano davvero e se siano davvero credibili, quelle nuove discipline chiamate “abbandologia”, o paesologia, che pur mi affascinano molto.

Quello che so è che Montedoro, girato nelle strade e tra le case in rovina di Craco, ghost town lucana che è un set perfetto, è certamente un film sull’abbandono. Su quello sentimentale (di Porziella, che con disperata, rassegnata, cocciuta calma strappa all’oblio le sue origini, ma anche degli ultimi superstiti di quella comunità, che vivono accampati ai suoi piedi, guardandola con allucinata distanza) e su quello sociale e politico, quello del nostro meridione che è abbandonato e sempre più si sta abbandonando e sta abbandonando: la sua storia, le sue molteplici identità, le sue lingue, i suoi saperi. Montedoro è la storia di un saccheggio. Montedoro è un film su una donna che, recuperando la memoria, decide di tornare a prendersi cura, di abbandonare l’abbandono e di smettere così di essere abbandonata, ma di tornare ad appartenere.

Ed è una riflessione su come l’abbandono lasci tutto apparentemente intatto, a un attimo dal crollo definitivo. È contro di esso che combatte questa coraggiosa pellicola. Ma, sia chiaro, Montedoro non è un film “etnologico”. Questo film le tradizioni, le lingue, i canti, i luoghi della tradizione, non si limita a registrarli e magari a interpretarli. Li usa. Ha nostalgia del futuro. Usa la tradizione come fosse una fionda per scagliare ogni sentimento (e ogni desiderio) nel futuro. E questo lo rende “necessario”. Montedoro, insomma, è un film profondamente mediterraneo, un film girato sulle montagne della Basilicata che ci racconta com’è fatto il Mediterraneo, quando si trasforma in roccia, sale, polvere e fuoco. Se avete voglia di vedere il mare, il nostro mare, quando si asciuga e si fa sotterraneo, quando si trasforma in erba, alberi, cime, valli, in acqua dolce, buona per dissetare, quando si maschera da terraferma, allora andate a vedere Montedoro. Ne vale la pena.

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