Il decreto Madia che modifica il Codice dell’amministrazione digitale (Cad) passa l’esame del Consiglio di Stato. Anche se, si legge nel parere favorevole della Commissione speciale di Palazzo Spada, non rispetta “la normativa europea e quella costituzionale, quale ad esempio quella concernente la libera concorrenza e quella relativa alla libertà di mercato”. E anche se gli stessi giudici amministrativi, lo scorso 24 marzo, hanno confermato la bocciatura arrivata l’anno scorso dal Tar con la motivazione che “l’elevato importo del capitale sociale minimo richiesto” è “irragionevole” e comporta la “sicura conseguenza negativa di vedere escluse dal mercato stesso tutte le imprese del settore di piccole e medie dimensioni”.

Il provvedimento attuativo, annunciato come la rivoluzione che dovrebbe consentire ai cittadini di accedere in modalità informatica a tutti i dati e servizi della pubblica amministrazione, stabilisce infatti che gestori della posta elettronica certificata, gestori dell’identità digitale, certificatori conservatori di documenti informatici debbano dotarsi di un capitale minimo di 5 milioni di euro. Fino a oggi invece per proporsi come gestore pec era sufficiente un capitale di 1 milione e per i conservatori di documenti accreditati bastavano 200mila euro.

Alzare l’asticella, come denunciato dalle associazioni di categoria, mette fuori mercato molte piccole società già iscritte negli elenchi. Il ministro Marianna Madia, però, non ha voluto fare marcia indietro. A dispetto del fatto che l’anno scorso il Tar del Lazio, in seguito all’impugnazione di Assoprovider e dell’associazione delle imprese Ict (Assintel), abbia annullato l’articolo 10 del decreto del 24 ottobre 2014 che imponeva lo stesso requisito alle società che vogliono operare come “identity provider“, nell’ambito del Sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale di cittadini e imprese (Spid). Il tribunale amministrativo ha definito la richiesta dell’esecutivo “illegittima” in quanto “discriminatoria e lesiva della libera concorrenza“, oltre che “illogica“, perché non c’è “correlazione tra la capacità economica e la competenza professionale”.

Il Consiglio di Stato a marzo ha confermato la sentenza, ribadendo che la richiesta è irragionevole e illegittima. E ribadendo che la giustificazione in base alla quale un elevato capitale sociale sarebbe indice di affidabilità organizzativa, tecnica e finanziaria non regge. “Si evidenzia altresì”, recitava la sentenza, “l’illegittimità per irragionevolezza dell’impedimento all’accesso al mercato di riferimento, dovuto all’elevato importo del capitale sociale minimo richiesto con l’atto impugnato, trattandosi di scelta rivolta a privilegiare una finalità di incerta efficacia, a fronte della sicura conseguenza negativa di vedere escluse dal mercato stesso tutte le imprese del settore di piccole e medie dimensioni, quali appunto quelle rappresentate dalle associazioni ricorrenti”.

Nonostante questo, con un salto mortale non indifferente la Commissione speciale martedì ha “preso atto quanto comunicato dall’amministrazione proponente” e dato parere favorevole al testo. Salvo, “al fine di prevenire possibili forme di contenzioso” invitare “l’Amministrazione proponente a tenere in debita considerazione quanto statuito dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 1214 del 24 marzo 2016, che ha confermato la sentenza del Tar per il Lazio n. 9951 del 21 luglio 2015 con cui è stato annullato l’art. 10, comma 3, lett.a) del d. P.C.M. 24 ottobre 2014, recante un requisito di capitale sociale minimo identico a quello di cui al citato art. 25 del CAD”. E aggiungere come chiosa che “deve essere valutata la logicità e razionalità delle scelte operate dall’amministrazione” e “le osservazioni formulate derivano dall’esigenza di rispettare la normativa europea e quella costituzionale”.

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