Secondo un aneddoto che circolava a corte, per compiacere Caterina di Russia e impressionare gli ambasciatori stranieri che l‘accompagnavano nel viaggio in Crimea (1787) il principe Grigorij Aleksandrovič Potëmkin fece allestire una serie di finti villaggi, nei quali figuranti benvestiti recitavano la vita bucolica e spensierata di una comunità felice. Tutto era falso, le linde casette erano soltanto facciate, le poderose navi da guerra alla fonda nei porti innocui mercantili ben mascherati, le greggi di pecore lo stesso gregge trasportato nottetempo di villaggio in villaggio: i ‘villaggi Potëmkin’, malignarono in seguito a Mosca.

Tuttora si discute se fosse totalmente falso anche l’aneddoto o se invece contenesse almeno una parte di verità. Meno discutibile è che il ‘metodo Potëmkin’ sia nell’arsenale della propaganda russa, che per platealità e disinvoltura si discosta dai macchinari del ‘soft-power’ occidentale. La settimana scorsa nel teatro romano di Palmira, città siriana riconquistata all’Isis dall’esercito di Assad con l’appoggio dell’aviazione russa, l’orchestra del Teatro Marinskij di San Pietroburgo ha tenuto il concerto della liberazione di fronte ad un vasto gruppo di rappresentanti dell’Onu e di media internazionali trasportato da Mosca laggiù. In coda all’evento i giornalisti hanno potuto fruire di un ‘tour Potëmkin’ nel quale bambini sbucati da rovine sbrindellate dalla guerra mostravano poster di Assad e cantavano travolti dalla felicità; seguiva una visita ad un ‘centro di riconciliazione’ che, come veniva spiegato ai giornalisti, accoglieva ribelli islamici convertiti alla pace e disponibili ad affratellarsi con i nemici.

La guerra di Siria è sempre più una ‘guerra Potëmkin’, un conflitto di cui ci viene mostrata una facciata finta. Dietro la cartapesta di un ‘cessate-il-fuoco Potëmkin’, concordato in febbraio tra russi e americani e ufficialmente ancora in vigore, e di un ‘negoziato di pace Potëmkin’, anche questo formalmente in piedi benché sepolto dal rifiuto di Assad di farsi un giorno da parte, tutto precipita; e la mischia siriana incrudelisce anziché attenuarsi, si complica anziché semplificarsi. Mentre i giornalisti trasportati a Palmira assistevano ad una ‘cerimonia di riconciliazione’ allestita per loro, Aleppo conosceva i bombardamenti più feroci dal 2013, con largo impiego notturno di quelle ‘bombe-barile’, primitive ma devastanti, con le quali gli elicotteri di Assad fanno strage di civili: ne sono morti 250 soltanto nel week-end del primo maggio. “E tutto questo mentre a voi dicono che la tregua grossomodo tiene”, raccontava ieri da Aleppo una persona che per varie ragioni preferisce restare anonima. Uscita la guerra dalle prime pagine dei giornali occidentali, tornati a casa i corrispondenti, sembra far notizia solo la finzione. Che in fondo accontenta molti governi, soprattutto occidentali: finché si può fingere l’esistenza di un cessate-il-fuoco e di una trattativa, nessuno sarà tenuto a rispondere all’implorazione ‘fate qualcosa’.

Beninteso, non è con le urgenze morali che si può risolvere una mischia quasi intrattabile. Nessuno intravede una soluzione che tolga di mezzo Isis, Assad e jihadisti salafiti, e le forze in campo sono troppo eterogenee e numerose perché da qui a breve i combattimenti possano decidere maneggiabili geometrie. Ma continuare la recita internazionale della tregua e del negoziato Onu equivale a rimuovere il problema. Peggio, a lavarsene le mani scaricandolo sulle Nazioni Unite. Sistema classico, l’ex Jugoslavia insegna, per costringersi ad occuparsene in seguito, quando il conflitto avrà eliminato centinaia di migliaia di vite e con quelli anche la residua possibilità di una soluzione stabile, definitiva.

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