Gli elementi di una storia di sicuro successo ci sono tutti. Un’antica città Maya fantasma. Un giovane di 15 anni appassionato, come Indiana Jones, di civiltà perdute. E un’idea affascinante: cercare le vestigia di antichi insediamenti mesoamericani nella penisola dello Yucatán, usando come mappa le costellazioni. Per questo, la notizia che il giovane canadese William Gadoury ha scoperto una sconosciuta città Maya, grazie a Google Earth, Wikipedia e allo studio dell’allineamento tra le stelle diventa subito virale in rete.

Ma alla storia manca, tuttavia, un elemento importante: la conferma scientifica. Nonostante gli attestati di stima ricevuti da singoli astronomi della Canadian space agency, la presunta scoperta non trova, al momento, conferme da parte degli esperti di archeoastronomia. La comunità scientifica internazionale, pur lodando lo spirito d’iniziativa del giovane canadese, si mostra, infatti, piuttosto scettica. E quella che in un primo momento era stata salutata come la scoperta di un’antica città Maya persa nella giungla, con tanto di nome di battesimo “K’àak’ Chì”, cioè “Bocca di fuoco”, dopo le prime indagini degli esperti si rivela, invece, molto probabilmente un comune campo di mais abbandonato, o una formazione geologica. Una delle principali critiche che gli studiosi muovono in queste ore all’ipotesi di presunti allineamenti tra manufatti umani e costellazioni è che le stelle, in realtà, nel corso di migliaia di anni si muovono, seppur molto lentamente, cambiando la loro posizione sulla volta celeste. La posizione che osserviamo oggi non è, quindi, la stessa che avevano in passato.

“Il concetto di mappa così come lo conosciamo oggi è un costrutto moderno dell’Occidente”, spiega al National Geographic l’astronomo e antropologo Anthony Aveni, considerato uno dei padri dell’archeoastronomia. Per lo studioso, la corrispondenza tra mappe astronomiche e manufatti umani – come ad esempio quella più nota: la sovrapposizione tra le piramidi della piana di Giza e le tre stelle della cosiddetta cintura della costellazione di Orione – è “una fantasia occidentale. Spesso, infatti, tendiamo a guardare le moderne mappe del firmamento e a vedere in esse delle forme, così come pensiamo di scorgerle nelle nuvole”.

Dello stesso parere anche il presidente della Società italiana di archeoastronomia, Elio Antonello, astrofisico presso l’Osservatorio di Brera dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Raggiunto da ilfattoquotidiano.it, lo studioso sottolinea come sia “importante prima leggere la pubblicazione, perché in questo campo è troppo facile farsi trascinare dall’entusiasmo. Si tratta, infatti, di questioni che si ripetono regolarmente quando ci si inventa “esperti” nel campo dell’archeoastronomia. Il problema – aggiunge lo scienziato dell’Inaf – è che spesso ci lasciamo trascinare troppo dall’immaginazione, che ci spinge a mettere in relazione oggetti sparsi sul terreno con la disposizione delle stelle in cielo, sulla base del concetto ambiguo di somiglianza. Quel che è certo – precisa Antonello -, è che le civiltà del passato non hanno mai inteso rappresentare le costellazioni in modo preciso in una mappa. Non c’è, infatti, alcuna evidenza storica che avvalori l’ipotesi che noi esseri umani avessimo in passato l’idea di rappresentare in modo esatto sul terreno le stelle del cielo”.

Per incoraggiare l’intuizione del giovane William Gadoury, che già in passato aveva presentato le sue teorie a un contest scientifico, la Canadian space agency aveva deciso di puntare sullo Yucatán uno dei suoi satelliti normalmente utilizzati per il monitoraggio di iceberg, come aiuto alla navigazione. Ma le immagini satellitari, secondo gli esperti, pur mostrando alcune anomalie, da sole non sono sufficienti a individuare tracce di antichi insediamenti umani. “Potrebbe trattarsi di strutture geologiche, che ricordano manufatti ma in realtà non lo sono – sottolinea Antonello -. Le immagini da sole non dimostrano né che l’ipotesi dell’esistenza della città Maya sia giusta, né che non lo sia. Per il giovane canadese si è trattato, in fondo, di una sorta di gioco”.

Ma com’è possibile, quindi, dimostrare questo tipo di ipotesi? “Il modo migliore, oltre alle analisi statistiche, per arrivare a delle conclusioni accettabili, anche se non si tratta mai di una dimostrazione rigorosa – spiega il presidente della Società italiana di archeoastronomia -, è indagare sul campo, in cerca di reperti archeologici. Ed effettuare analisi indirette, di carattere antropologico, del folklore locale attuale. Se le strutture che si stanno cercando avevano in passato una valenza sacra – chiarisce l’esperto italiano – è, infatti, facile che questa tradizione si sia conservata nei secoli anche nelle popolazioni odierne”.

Non è escluso, quindi, che sepolte da qualche parte nella giungla centroamericana si celino davvero città ancora sconosciute. “Sono fermamente convinto che esistano centinaia di siti Maya ancora da scoprire – spiega al National Geographic Francisco Estrada-Belli, studioso di archeologia Maya ed esperto di telerilevamento -. La probabilità di trovarne uno solo puntando a caso un dito su una carta della regione è, infatti, abbastanza alta. Mi piacerebbe – conclude Belli – invitare il giovane William a venire nella giungla con me, in cerca di siti Maya”.

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