La parola “fine” è arrivata. “Giustizia è fatta”, hanno commentato i famigliari delle vittime. I giudici della quarta sezione della Corte di Cassazione hanno confermato le condanne nei confronti dei sei tra manager e dirigenti della ThyssenKrupp ritenuti responsabili della morte di sette operai per il rogo divampato tra il 6 e il 7 dicembre 2007 nell’acciaieria torinese. Nove anni e otto mesi per l’amministratore delegato Harald Espenhahn, sei anni e dieci mesi per i dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz, sette anni e sei mesi per il direttore dello stabilimento Daniele Moroni, sette anni e due mesi per l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e sei anni e otto mesi per il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri. Le vittime del rogo sono Antonio Schiavone (il primo a morire alle 4 del mattino per le ferite riportate durante l’incidente), Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino (spirati lentamente dal 7 al 30 dicembre del 2007 per le gravissime ustioni riportate).

Sono stati ritenuti responsabili di omicidio colposo, omissioni di cautele antinfortunistiche e incendio colposo aggravato. Ora per gli italiani Pucci, Moroni, Salerno e Cafueri si apriranno le porte in carcere. Giusto il tempo necessario per il sostituto procuratore generale di Torino Vittorio Corsi di ricevere la sentenza dalla Cassazione e firmare il provvedimento di esecuzione, anche se pare che i quattro italiani si presenteranno spontaneamente nei commissariati di polizia o nelle caserme dei carabinieri per evitare di essere prelevati a casa. Per i due manager tedeschi, Harald Espenhahn e Priegnitz, i tempi saranno più lunghi, ma favorevoli: l’Italia dovrà emettere un mandato di cattura europeo e poi, in base alle norme di cooperazione giudiziaria, i due tedeschi verranno incarcerati nella loro nazione, ma solo per un massimo di cinque anni, il massimo della pena prevista per l’omicidio colposo aggravato. In sostanza, la pena per l’ad della ThyssenKrupp sarà quasi dimezzata, vista la condanna a nove anni e dieci mesi.

Il collegio presieduto da Fausto Izzo hanno quindi respinto la richiesta del sostituto procuratore generale Paola Filippi che in mattinata aveva chiesto di annullare la sentenza del 29 maggio 2015 per rimandare gli atti alla Corte d’assise d’appello di Torino affinché i giudici possano rivalutare la pena base dell’omicidio colposo aggravato e bilanciare le attenuanti. Una richiesta che aveva suscitato molto spavento tra i parenti – che avevano gridato o erano scoppiati in lacrime in aula attaccando i giudici -, erano dei sette operai morti e le dure reazioni della politica e dei sindacati.

Quella notte di fine 2007 allo scoppio del rogo i sette operai insieme al collega Antonio Boccuzzi, l’unico sopravvissuto e ora deputato del Pd, avevano tentato di spegnere le fiamme, ma ogni loro sforzo era stato inutile: nonostante i frequenti incendi sulla linea 5, gli estintori erano quasi vuoti, le manichette di acqua inutili, l’impianto non era adeguato perché il management sapeva che lo stabilimento sarebbe stato chiuso. Una città di tradizione operai che viveva già la stagione della crisi Fiat era scesa in piazza per protestare contro le morti bianche e la risposta della magistratura era stata rapida. Dall’indagine dei pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso emerse che quella di limitare le spese nella prevenzione era stata una scelta aziendale, definita dai giudici della corte d’assise come “sciagurata”, ma consapevole, motivo per cui avevano condannato gli imputati a pene tra i dieci anni e i sedici per omicidio volontario con dolo eventuale. Per i colleghi della Corte d’assise d’appello, invece, non ci fu “dolo”, ma soltanto imprudenza, un impianto che ha retto. Un’imprudenza pagata a carissimo prezzo.

La vicenda giudiziaria – Era la seconda volta che il processo Thyssen arrivava in Cassazione, che in precedenza aveva ordinato alla Corte d’Appello di Torino di ricalcolare il trattamento sanzionatorio. Nel processo d’appello bis le pene erano state lievemente ridotte. In primo grado il pm Raffaele Guariniello aveva contestato l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale e le condanne erano state molto pesanti. In appello le pene furono mitigate, con l’esclusione del dolo, e l’ultima riduzione c’è stata dopo il primo ricorso degli imputati in Cassazione. L’ultimo verdetto di condanna ha confermato l’omicidio colposo aggravato e violazione delle norme di sicurezza. In caso di conferma della sentenza, quattro imputati si costituiranno subito.

La vicenda giudiziaria era partita il 15 gennaio 2009, quando si è aperto a Torino il primo grado di giudizio, che si sarebbe prolungato fino al 15 aprile 2011, giorno della prima sentenza, arrivata dopo 100 udienze celebrate e la condanna severa inflitta a sei imputati. Tra loro l’amministratore delegato dell’azienda siderurgica, Harald Espenhahan, condannato in primo grado a 16 anni e mezzo di reclusione per omicidio volontario. Per i manager Thyssen le pene erano state in primo grado di 13 anni e mezzo per omicidio e incendio colposi (con colpa cosciente) e omissione di cautele antinfortunistiche. Le parti civili avevano avuto 13 milioni di euro su un totale di 17 milioni di risarcimento. L’1 luglio 2008 la Thyssen, che nel frattempo nel marzo 2008 aveva chiuso i battenti dello stabilimento torinese, ha versato la cifra alle famiglie dei 7 operai morti nel rogo per non costituirsi parte civile.

Secondo i giudici di primo grado, fu una “scelta sciagurata” dell’ad “di azzerare – si legge nella motivazione – ogni scelta di prevenzione”. Le pene erano state lievemente ridotte durante il secondo grado di giudizio, celebrato tra il 28 novembre 2012 e il 28 febbraio 2013, presso la corte d’assise d’appello di Torino, presieduta da Giangiacomo Sandrelli, con la clamorosa esclusione per l’ad Espenhahan, del dolo. All’appello è seguito il ricorso in Cassazione presentato da Raffaele Guariniello, affiancato dai pm Laura Longo e Francesca Traverso, nonché il pg Ennio Tomaselli, contro la sentenza d’appello, lo stesso fanno le difese degli imputati con altre motivazioni. In seguito i giudici supremi avevano chiesto il ricalcolo delle pena.

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