“No, non è ancora troppo tardi per noi”. Non è troppo tardi per One Biafall, che viene dal Senegal, e ha 31 anni. Non è troppo tardi per Kajame Mutomb, 45 anni, arrivato dal Congo. Non è ancora troppo tardi per Rajah, originario dello Sri Lanka, che vanta 67 primavere. A Roma un gruppo di senzatetto ha deciso di smetterla con l’elemosina e di tornare a mettersi in gioco. Sono in 20, tra italiani e stranieri, tutti con un regolare permesso di soggiorno. Da 2 anni hanno fondato un’associazione culturale, dal nome Humanitas, con l’obiettivo di fare un lavoro utile per loro e per la città. Una vera e propria officina solidale, con cui guadagnare “grazie al sudore della nostra fronte”, raccontano.

“Non vogliamo più solo ricevere, ma anche dare”. È questo il motto dei senzatetto: tutti, per un motivo o per l’altro, vivono alla giornata, lavorando come facchini, rigattieri, elettricisti. Andre ha 47 anni e nel Camerun era un professore di Matematica. Daniele, 50 anni, era autista in Burkina Faso. Rehamat, per tutti Alì, viene dal Pakistan e di professione faceva il fornaio. Si sono incontrati per la prima volta in una struttura di accoglienza della capitale, vicino la stazione Ostiense. “Vogliamo dimostrare ai romani, ma anche a noi stessi, che abbiamo ancora le potenzialità per lavorare. Che siamo ancora in grado di reinventare la nostra vita”, aggiungono con orgoglio.

“Vogliamo unire le nostre diverse capacità per dare vita ad uno spazio comune, una vera e propria officina solidale”

L’idea di raggrupparsi in un’associazione è venuta a Kajame, padre di 3 figli e leader del gruppo. “Per 2 anni abbiamo promosso iniziative culturali con i rifugiati in arrivo nella capitale. Abbiamo poi stretto rapporti con le cooperative della città per aiutarle nello smaltimento dei rifiuti”, spiega. Ora, però, è il momento di strutturarsi. “Vogliamo unire le nostre diverse capacità per dare vita ad uno spazio comune, una vera e propria officina solidale”, continua. Un’esperienza di lavoro comunitario, insomma, basata sulla raccolta dei materiali usati (riutilizzabili e riciclabili) donati all’associazione dalle famiglie e dagli enti.

“Non si tratta di assistenzialismo – ci tengono a precisare – ma di dare la possibilità, a chi ne è in grado, di mantenersi col frutto del proprio lavoro”. Parliamo di armadi, comodini, reti, sedie, ma anche poltrone, divani, vestiari ed elettrodomestici da ritirare direttamente a casa, secondo un accordo stipulato con il Comune. Con quei materiali, poi, Kajame e compagni metterebbero in piedi un mercatino solidale, organizzato e controllato, rivolto per lo più ad altri immigrati residenti nella capitale, che sono sempre alla ricerca di oggetti di prima necessità da comprare a buon prezzo. “Si tratta anche di una questione igienica – insiste Kajame –. Tanti rom in città raccolgono materiale direttamente dai cassonetti, per poi rivenderlo in mercatini illegali”.

“Si tratta anche di una questione igienica. Tanti rom in città raccolgono materiale direttamente dai cassonetti, per poi rivenderlo in mercatini illegali”

Già in passato i membri dell’associazione si sono messi al servizio della città. A settembre, ad esempio, stanchi di vedere la galleria Margherita sempre sporca (nei pressi della stazione Termini, ndr), si sono armati di guanti, scope e buona volontà per ripulire tutto. E in tanti partecipano come volontari a iniziative ecologiche e giornate di mobilitazione, come quella promossa lo scorso 12 marzo dall’associazione Retake Roma.

Di mollare, insomma, non c’è proprio voglia. Ad ottobre i membri dell’associazione hanno scritto una lettera firmata al governatore Zingaretti, senza avere risposta. A novembre, invece, si sono incontrati con Emiliano Monteverde, assessore alle Politiche Sociali del I Municipio. Ma la situazione sembra ancora bloccata. “Dopo Mafia Capitale – spiega Kajame – ci hanno fatto capire che non ci sono più fondi”. Eppure il progetto non sembra essere così lontano dalla realtà. “A Milano, ad esempio, è nata un’esperienza simile, dal nome Di mano in mano, finanziata anche dal Comune – aggiunge il presidente –. Lo stesso succede a Bruxelles, dove sono più di 40 gli operai impiegati nell’officina solidale”.

“Discriminati? Non ci badiamo. Anzi, quando succede cerchiamo di prenderla con un sorriso”

La vita a Roma non è semplice. “Mi manca il lavoro, senza quello non posso vivere”, sorride amaro Andre. “Discriminati? Non ci badiamo – risponde Kajame –. Anzi, quando succede cerchiamo di prenderla con un sorriso”. Per ora gli iscritti si appoggiano ai locali della chiesa S.Lucia del Gonfalone, nel rione Regola, in centro. Ma sognano di riunirsi presto nella propria officina. Nei prossimi mesi, poi, ci sarà la possibilità di partecipare ai bandi della Regione Lazio nel campo dell’inclusione sociale e dell’innovazione. “In tanti, nel gruppo, erano tentati di spostarsi altrove – conclude Kajame –. Ma è proprio questa la nostra sfida: riscattarci qui, a Roma, nella città che ci ha accolto. E sono sicuro che ce la faremo”.

(foto realizzate in collaborazione con Marco Mastrandrea)

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