Mentre a Roma si è forse presa sul serio la questione idrogeologica, a livello locale ci si congratula a parole con l’attivismo romano, meno nei fatti. Almeno in apparenza, la struttura di missione #italiasicura del Governo ha deciso di superare la logica delle emergenze, che per quasi vent’anni ha fatto scuola in Italia, segnalando l’incapacità del paese di confrontarsi con la fragilità del proprio territorio. E, con un’operazione di trasparenza, rara dalle parti nostre, ha messo in evidenza l’abissale distacco tra investimenti e danni, in rapporto di uno a dieci.

Per indirizzare gli investimenti, futuribili ma possibili, ci vorrebbe il coraggio di tornare indietro, allo spirito della Legge sulla Difesa del Suolo (183/1989) e delle successive Leggi Sarno e Soverato, nate sull’emozione alla fine del secolo scorso. Fu posta allora la premessa di ogni azione: la conoscenza del dove, come, quando e perché. Primo punto era l’individuazione delle aree a rischio, dove porre il vincolo urbanistico di inedificabilità e, nei casi più clamorosi, prevedere la delocalizzazione. Nel nuovo millennio non sono mancate nuove alluvioni, anche più disastrose del passato e forse più frequenti; ma i politici locali le hanno affrontate al grido «Scusateci, risarciremo tutti» oppure invocando azioni urgenti e indispensabili: «Prevenzione, messa in sicurezza, efficace azione di protezione civile e aiuto immediato alla popolazione e agli imprenditori».

Ottimi propositi, ma glissando su alcuni particolari di loro competenza. Come fu applicato il vincolo idrogeologico? Come lo hanno applicato loro stessi? E come viene declinato tutt’oggi, passata l’emergenza? Alla fine del secolo scorso, la mappatura delle aree inondabili era stata pressoché completata e i colori indicavano chiaramente la potenziale insicurezza dei luoghi. Erano mappe un po’ grossolane, per via dell’urgenza con cui furono fatte e di tecniche un po’ rudimentali; perciò, negli ultimi anni, si è proceduto ad aggiornarle, a cura dalle amministrazioni locali. Il risultato è quasi ovunque una carta rattrappita e scolorata, dove aree più o meno larghe sono state sbiadite o sbiancate.

Per contro, quasi mai le zone a rischio sono state allargate, quasi mai rese più intense: insomma, quei pasticcioni d’una volta avevano sbagliato sempre e solo in eccesso, per eccesso di zelo. «Forse erano zone di cotone, di quello buono di una volta, che passato sotto l’acqua si restringe un bel po’» ha sussurrato un comico. E qualche gufo locale associa le zone redente a presenti e future iniziative urbanistiche. Sia chiaro: redente senza che sia stato fatto nulla di concreto. A scala nazionale il Rapporto 2015 di Ispra segnala 12mila chilometri quadrati di aree a elevata pericolosità idraulica, il 4% del territorio nazionale.

Un altro 8% sarebbe a media pericolosità. A questo dato sconveniente mettono rimedio le formichine locali, che possono limare dove serve i dati poco confortanti, smacchiando il giaguaro del rischio alluvionale. E, se accadrà un disastro in zone non mappate, le formichine potranno dire alla propria gente e alla magistratura: «Non era prevedibile». L’alibi dell’evento ‘eccezionale veramente’, una specifica del tutto italica al pari del ‘severamente vietato’.

Invero, preoccupa la circostanza che i nuovi investimenti, promessi dal governo per affrontare ‘di petto’ la questione idrogeologica, saranno affidati proprio a codeste formichine, le diligenti perpetue della regola attribuita all’ingegnere Edward Murphy: «Se ci sono due o più modi di fare una cosa, e uno di questi modi può condurre a una catastrofe, allora qualcuno la farà in quel modo». E, mentre la formica farà fruttare a modo suo gli investimenti, la cicala di governo sarà biasimata da Brussels, che si chiederà ancora una volta come sia potuto accadere tutto ciò.

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