L’ho già scritto in qualche altro intervento: uno dei lati caratteristici della giustizia e specialmente della giustizia applicata è quello pop. Non lo dico in senso spregiativo, né secondo la critica passatista circa un presunto effetto distorsivo ed invasivo della giustizia mediaticizzata sulla vicenda giudiziaria.

Conferenza stampa di Pino Maniaci e dei suoi legali

L’occasione di tornare su questa definizione di “pop justice” mi è tornata alla mente durante l’ultima puntata di Bersaglio Mobile su La7. Era ospite l’ex pubblico ministero antimafia Antonio Ingroia, oggi avvocato penalista. Ingroia, su domanda del direttore Mentana, che desiderava capire se, passato dall’accusa alla difesa, Ingroia si fosse avveduto di qualche anomalia che, nella passata posizione di accusatore, non aveva riscontrato, ha ammesso che si è imbattuto in imputazioni azzardate, in un uso non sempre ponderato delle intercettazioni e, specialmente, ha “toccato con mano” gli effetti dirompenti dell’indagine sulla condizione emotiva e psicologica del soggetto che ne viene colpito.

Molti saranno restati stupiti da queste affermazioni; taluni avranno applaudito a questa “illuminazione garantista”, altri avranno chiosato con un “facile dirlo adesso” o “meglio tardi che mai”, altri ancora avranno visto la mossa di “cambiare casacca” giudiziaria come un comportamento già di per sé negativo e dunque, le affermazioni dell’ex pm, saranno state lette come una conseguenza inevitabile di questo suo (presunto) “declino etico”. Io credo altro: queste dichiarazioni in realtà sottendono qualcosa di molto più sottile e giuridicamente importante e cioè la differenza tecnica delle due funzioni (magistrato e avvocato).

La magistratura è l’organo dello Stato deputato a fare da “sacerdote” della legge e l’avvocato è colui che tutela i diritti dell’accusato. Lo strumento di queste due polarità sono il processo e l’applicazione della pena (se l’accusato viene condannato). L’antropologo Emile Durkheim è stato illuminante sul punto: il reato costituisce la rottura dell’equilibrio sociale ed il suo accertamento e la sua punizione sono necessari per suturare la ferita sociale costituita dalla violazione penale. Inoltre, come sostenuto ormai da sempre dalla dottrina penalistica, la pena (e dunque anche il processo) hanno, accanto alla funzione special-preventiva che si indirizza direttamente al colpevole, anche una funzione general-preventiva, che è indirizzata come monito a tutta la collettività affinché impari a non trasgredire la legge.

Sarebbe superfluo sottolineare come queste due funzioni si debbano esprimere in modo differente: nei confronti dell’accusato è necessario il rispetto assoluto delle regole di diritto (fondamentale è il ruolo dell’avvocato) per addivenire ad una decisione giusta. Per la cote’ general-preventiva la prospettiva comunicativa è quella di una sorta di “pubblicità progresso” o piuttosto di un “messaggio politico” inteso nel senso più nobile e classico del termine: è una comunicazione alla “polis” e cioè alla società nel suo complesso. Questo è il lato pop della giustizia, tanto necessario giuridicamente quanto inevitabile comunicativamente.

Gli strumenti della pop justice sono (e sono stati) la letteratura, il cinema, il teatro, talvolta la musica, il giornalismo, la televisione, oggi addirittura il web. In un’intervista risalente l’ex Procuratore della Repubblica di Milano all’epoca di Tangentopoli ebbe a dire che senza il consenso popolare l’indagine sul malaffare politico ed imprenditoriale non avrebbe avuto la portata che ha avuto. Questa è la certificazione della natura pop di una delle funzioni della giustizia penale. Quella che Ingroia stigmatizza, da difensore, è un’esigenza ineliminabile che si traduce in messaggio in forma pop per essere iconograficamente compreso. Perché Gesù è stato crocifisso in mezzo a due ladroni, se non per ragioni comunicative?

Inutile dire perché definisco pop questa funzione della giustizia penale: l’estetica pop è consistita proprio nel valorizzare di un messaggio artistico comprensibile da tutti, di fatto pubblicitario. La pop art ha insegnato che conta di più la riproduzione dell’opera piuttosto che l’opera stessa. La pop justice è la medesima cosa: viene privilegiato il messaggio giudiziario immediato con una svalorizzazione dell’originale (il quadro, il processo) a favore della sua rappresentazione con un linguaggio pubblicitario e d’impatto emotivo. Antonio Ingroia, sottolineando il cambio di paradigma mentale in cui si è trovato, passando da pubblico ministero a difensore penale, ha “confessato” non tanto una stortura del sistema quanto la fondamentale esigenza della giustizia di rappresentarsi anche in versione pop. Il punto è comprendere se la pop justice possa influenzare il vero e proprio processo oppure no. Sul punto si è pronunciata la Corte di Cassazione a proposito del processo mediatico, sostanzialmente negando questa influenza. Difficile dirlo. Azzardato negarlo.

Ma il punto è un altro, perché la pop justice non è la giustizia mediatica generalmente intesa. La giustizia è la protagonista, non la vittima della sua spettacolarizzazione. Quando la società o la repressione individuano un “tema sensibile” (taluni lo sono in determinati periodi storici e non in altri, si pensi al riciclaggio oggi) la giustizia opera sul fronte tecnico e su quello pop. Le conseguenza? Quelle accennate da un Ingroia quasi stupito. Ma, viene da dire, che senso avrebbe esigere la funzione general-preventiva dal processo e dalla pena se non si veicolassero questi fatti tecnico-giuridici complessi secondo un metodo “alla Warhol” fruibile da tutti? Ecco allora che le intercettazioni, la prova scientifica non riscontrata o l’avviso di garanzia prendono una forma artistico-espressiva da poster.

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