Il calcio, al netto di quello che è diventato, – una macchina da soldi e di interessi che poco hanno a che vedere con l’essenza dello sport – è sempre stato in grado di regalarci storie fantastiche. Avventure, tragedie e imprese tanto romantiche quanto assurde per la loro verosimiglianza. Vittorie clamorose con le quali interi popoli si sono presi la rivalsa su altri: La mano de Dios che diede il trionfo all’Argentina sull’Inghilterra nei quarti di finale dei Mondiali di Messico ‘86 – vera e propria vendetta per la guerra delle Falkland consumatasi solo quattro anni prima -, o ancora il gol con il quale Jurgen Sparwasser, bomber della Ddr, stese i cugini dell’Ovest nella prima fase del Campionato del Mondo del 1974. E ancora storie e drammi personali.

La caviglia destra di Van Basten, le ginocchia gracili di Ronaldo e Roberto Baggio. La leggenda di Socrates, “l’intellettuale con i tacchetti”, e il rivoluzionario esperimento della Democracia Corinthiana. Tragedie: quella di Superga che mise fine alla favola del Grande Torino, la follia hooligans dell’Heysel e le 96 vittime di Hillsborough. O liete favole: prendiamo quella fresca fresca del povero Leicester di Ranieri diventato campione d’Inghilterra per la prima volta nei suoi oltre 120 anni di storia, in un campionato dominato dai multimiliardari club di sceicchi e magnati del petrolio. Storie che, nel bene o nel male, da sempre hanno fatto da cornice a quanto si andava consumando sui rettangoli da gioco e che hanno permesso, a quello che resta pur sempre lo sport più “popolare” tra tutti, di levarsi di dosso la fin troppo superficiale etichetta di “gioco in cui ventidue uomini in mutande per un’ora e mezza inseguono una palla che rotola”.

GARRINCHA

Storie quindi. Come quella che Antonio Ferrara, autore e illustratore di numerosi libri per ragazzi (vincitore nel 2012 del premio Andersen con Ero Cattivo), ha voluto raccontare con Garrincha. L’angelo dalle gambe storte, pubblicato dalla piccola casa editrice per bambini Uovonero. Un fumetto per ragazzi (ma non solo) che, immerso nella bicromia blu-ocra, narra la parabola di uno dei più grandi calciatori (troppo spesso dimenticato) dello scorso secolo: Manoel Francisco dos Santos, in arte GarrinchaE il ritratto del funambolo brasiliano parte proprio dall’origine di quel nomignolo che sarebbe entrato nel cuore di un intero popolo, al quale l’ala destra carioca avrebbe “regalato più allegria in tutta la storia del football”. Garrincha, come il nome di quei passerotti marroni col dorso rosso a strisce nere che, da bimbo, Manoel Francisco si divertiva a rincorrere, prima di tornare nella sua povera casa a fumare sigari di paglia e bere cachimbo, alcolico a base di cachaca, unico rimedio a quei dolori alle ossa che affliggevano il suo gracile corpicino.

Perché Garrincha non era un bambino come tutti gli altri. A causa di una poliomelite si ritrovava a dover convivere con una spina dorsale storta, il bacino sbilanciato e una gamba di sei centimetri più corta dell’altra. Non era nemmeno troppo intelligente, a detta di molti. Tanto che all’età di tredici anni decise di abbandonare la scuola per andare a lavorare nell’azienda tessile del suo paese, Pau Grande (Rio De Janeiro). Fu qui che, grazie al suo incredibile talento, riuscì ad entrare a far parte della squadra di calcio della fabbrica e a farsi notare dall’ex calciatore del Botafogo, Araty Viana, il quale, ammaliato dalle sue movenze anarchiche, gli consiglierà di presentarsi al campo di allenamento della sua vecchia squadra, ai tempi alla ricerca di un’ala destra. In pochi potevano immaginarsi che quel ragazzino “storpio”, o “invalido” come erano soliti definirlo i medici, nel giro di pochissimi anni si sarebbe affermato come uno dei più grandi calciatori della storia del calcio brasiliano, e non solo.

Protagonista, insieme al trio Pelé-Didi-Vavà, ai mondiali di Svezia ‘58 e Cile ‘62 dominati dalla nazionale verdeoro, Mané entrò nella storia grazie a quel suo dribbling ubriacante che, proprio grazie al fisico sghembo e al baricentro sbilenco, gli permetteva di sgusciare via ai tenaci difensori dell’epoca, così come agli ostacoli che la vita mai gli risparmiava. I successi con la maglia carioca e del Botafogo erano infatti accompagnati da un’esistenza sregolata, fatta di donne (mogli e tante amanti), fiumi di alcol e tragedie (la morte di Garrinchinho, figlio avuto dalla cantante Elza Soares, vittima di un incidente d’auto a soli nove anni).

Problemi che erano la conseguenza della sua incapacità di gestirsi e di sapere gestire una vita che a volte sembrava pretendere troppo da quel “passerotto” ingenuo e fragile. Una vita che gli diede tanto, ma che con la stessa facilità gli tolse tutto. E in tal senso le tavole conclusive di Garrincha. L’angelo dalle gambe storte, che lo ritraggono abbandonato a se stesso in un letto di ospedale, sono un condensato incredibile di emozioni. Quelle stesse emozioni che Mané Garrincha faceva vivere ai propri tifosi ogni qual volta, con l’astuzia di un giocoliere, metteva a sedere i suoi avversari e, con quel sorriso da bambinone stampato in volto, spingeva la palla in rete.

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