New York dà, New York toglie. Non lasciatevi ingannare dalle luci della metropoli: qui se vuoi ottenere risultati devi lavorare sodo. Lo sanno bene i ristoratori italiani di ultima generazione, che arrivano spinti dalla voglia di ricominciare, ma che spesso devono fare i conti con la realtà. La competizione è altissima e i dati del National Restaurant Association parlano chiaro: nell’arco di 5 anni il 50% dei ristoranti che aprono sono costretti a chiudere. Solo uno su due ce la fa. Eppure la Grande Mela conserva intatto il fascino di una volta; tanto che il numero di persone che si iscrivono all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) cresce di anno in anno. Nel 2013 gli italiani registrati al consolato di New York erano 61.370, mentre nel 2015 la cifra è salita a 82.563. Il cibo è sempre il nostro cavallo di battaglia, ma oggi è il mercato a dettare le regole.

“Il ristorante è un’azienda, qui non c’è spazio per l’improvvisazione”Fast food, fast dining, fast casual. A New York le tendenze in fatto di cibo cambiano alla velocità della luce: “I clienti sono molto esigenti, vogliono essere stupiti”, racconta Alessandro Colnago, vicepresidente di Export Usa. “L’aspetto positivo è che il prezzo passa in secondo piano, l’importante è far vedere che dietro a ogni prodotto c’è una storia”, aggiunge. La competizione è altissima: New York ospita 24mila ristoranti, di cui 1150 sono italiani (610 solo a Manhattan). Il turismo fa la sua parte (nel 2015 sono arrivate oltre 57 milioni di persone, secondo i dati diffusi dalla città di New York), ma anche i newyorchesi hanno una forte attitudine a mangiare fuori: secondo il National Restaurant Association il 47% dei pasti che consumano avvengono fuori dalle abitazioni e il 44% dichiara di mangiare italiano almeno una volta a settimana.

“I clienti voglio essere stupiti e il prezzo passa in secondo piano. L’importante è far vedere che dietro a ogni prodotto c’è una storia”

“La cucina italiana negli Usa è tra le più consolidate – conferma a ilfattoquotidiano.it Marcello Cristo, editor a La Voce di New York – ma spesso viene considerata di serie b dai grandi chef americani, che gli preferiscono quella francese”. Il motivo è principalmente uno: “Su questa percezione pesa la tradizione della cucina italo-americana che ha rovinato il nostro cibo per decenni”, sottolinea. Oggi la qualità del prodotto viene prima di tutto, ma non è ancora abbastanza: “Spesso i ristoratori italiani si focalizzano sulla cucina, ma restano carenti sul lato del marketing e questo è un aspetto da non trascurare se si vuole allargare la propria clientela”, spiega Alessandro Colnago.

Per questo chi sogna di aprire un locale deve seguire alcuni step fondamentali: “Noi abbiamo il cibo nel dna, per cui tantissimi italiani arrivano con questo sogno – spiega Colnago -, ma New York non è un posto per provare e vedere come vanno le cose, qui il ristorante è una vera e propria azienda”. Prima di fare questa scelta è importante avere le idee chiare: “Gli aspetti da tenere in considerazione sono quattro: il prodotto, il quartiere, l’interior design e i costi fissi da sostenere”, spiega. Una volta lanciato il locale si deve puntare sulla comunicazione: “La parte promozionale conta quanto il cibo – ammette –, non basta essere il miglior pizzaiolo di New York se non si ha alle spalle un impianto di marketing che funziona”. La fortuna, però, è che quando il ristorante è apprezzato la voce si sparge in fretta: “New York è caratterizzata da grande mobilità, la clientela non si limita al tuo quartiere” conclude.

“Gli aspetti da tenere in considerazione sono quattro: il prodotto, il quartiere, l’interior design e i costi fissi da sostenere”

“Qui i giovani tornano a sperare” – C’è anche chi è andato a New York per vedere da vicino come vivono i nostri connazionali. È il caso di Luca Di Prospero e Maddalena Monti, attori e filmaker, che hanno girato il documentario “Spero bar”, in cui hanno raccolto le storie di 15 italiani: “Siamo venuti per raccontare le storie dei ‘nuovi’ italiani, molti dei quali impiegati nel mondo della ristorazione”, racconta Luca. Qui hanno incontrato molti colleghi: “Abbiamo parlato con attori e ballerini venuti per cercare fortuna e che sono finiti a fare i camerieri”, ammettono. Le difficoltà, infatti, non mancano: “Gli affitti sono alti e ottenere il visto è difficile”, spiegano. Ma ad avere la meglio è l’ottimismo: “Nonostante le avversità abbiamo visto persone serene – sottolinea Luca -, mentre in Italia anche nel sacrificio non c’è speranza”. Ed è per questo che in tanti decidono di andarsene: “Gli Stati Uniti restano un Paese all’apparenza meritocratico – spiegano – alla fine riesci sempre a trovare una persona che ti dà un’opportunità”.

Ristoratori e pizzaioli: “Difficile sradicare la cucina italo-americana, ma ci stiamo provando” – “New York è una città che non perdona, se uno vuole farsi le ossa è meglio partire da una località più piccola”. Lo sa bene Roberto Caporuscio, presidente dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani America; nato 55 anni fa a Pontinia (Latina), è arrivato negli Usa 16 anni fa, ma vive nella Grande Mela da 7 anni, dopo essersi fatto le ossa a Pittsburgh. In questi anni ha avuto modo di assistere al cambiamento della cucina italiana negli Usa: “I migranti del secolo scorso si inventavano la nostra cucina – spiega -, ma ora il livello si sta alzando molto e anche gli americani stanno iniziando a capire cos’è davvero la pizza napoletana”. Con le sue due pizzerie a Manhattan (Kesté e Don Antonio), aperte con il socio Antonio Starita, Roberto può finalmente tirare le somme: “In Italia per raggiungere questi risultati ci sarebbe voluto il doppio del tempo – ammette –, qui invece se hai un’idea che funziona non conta di chi sei figlio”.

“New York è una città che non perdona, se uno vuole farsi le ossa è meglio partire da una località più piccola”

È stato così anche per Raffaele Ronca, nato a Napoli 44 anni fa, e arrivato a New York nel lontano 1991: “Sono partito a 19 anni e senza una lira – racconta – per me l’America era il sogno nel cassetto”. Superate le difficoltà iniziali, Raffaele ha cominciato a lavorare duro: “Ho fatto anni di gavetta: dal lavapiatti fino al servizio in sala”, sottolinea. Poi però le radici italiane hanno fatto la loro parte: “Ho iniziato a cucinare per i miei amici newyorchesi e loro mi dicevano sempre: perché non ti apri un tuo ristorante?”, ricorda. Dieci anni fa la prima grande occasione: Raffaele viene promosso capochef: “In tutti questi anni sono tornato spesso a casa per riscoprire i veri sapori della nostra terra – prosegue –, e anche se sono lontano cerco di portare qui la cucina di mia mamma”.

Il sogno si è realizzato con l’apertura del ristorante Rafele, ma niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza l’Italia: “E’ l’unico posto dove trovo l’ispirazione – ammette -, New York è caotica, non riesce a tirarti fuori le idee”. Ai giovani di oggi che sognano un futuro oltreoceano consiglia di tenere gli occhi aperti: “Io credo che anche in Italia se lavori sodo riesci ad ottenere ottimi risultati – ammette – e poi New York non è un sogno alla portata di tutti, o ti conquista o ti fa venir voglia di scappare”.

“New York non è un sogno alla portata di tutti: o ti conquista o ti fa venir voglia di scappare”

Laura Giromini e Luca Arrigoni fanno decisamente parte della prima categoria. Entrambi attori poco più che trentenni, sono arrivati negli Usa nel 2007: “Il nostro sogno era recitare in un musical e quale posto meglio di New York per provare?”, raccontano. Anche per loro gli inizi non sono stati facili: “Abbiamo fatto i camerieri cercando di portare avanti la nostra passione per la recitazione”. E se Laura continua il suo percorso come attrice, Luca ha deciso di rivedere i suoi piani: “Da quando sono qua ho sempre lavorato nella ristorazione – spiega – e qualche anno fa ho deciso di imparare a fare la pizza”.

Le cose hanno funzionato, così quattro anni e mezzo fa hanno deciso con un amico di aprire a Brooklyn il primo locale, Sottocasa. E ora che stanno per inaugurare la loro terza pizzeria sanno bene quali sono i costi maggiori per un ristoratore: “Il prezzo dell’affitto dipende dalla zona, per il primo locale paghiamo 5mila dollari al mese, per il secondo 15mila – raccontano -, ma il vero grattacapo è fare i lavori di ristrutturazione. Qui nell’edilizia sono molto più indietro rispetto all’Italia, sia per la tempistica che per la qualità”. Anche in cucina c’è stato qualche problema all’inizio: “Alcuni clienti non conoscono la pizza napoletana doc e magari chiedono i chicken wings come condimento – spiegano -, ma dopo averla assaggiata si ricredono sempre”. Per loro il futuro è qui, ma a volte la nostalgia si fa sentire: “New York mi ha drenato un po’ le energie, qui non ti puoi mai fermare – ammette Luca – gli italiani dovrebbero cominciare ad apprezzare di più la loro qualità della vita, è qualcosa di impagabile”.

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