Ci mancavano solo i Panama Papers. Adesso che i documenti segreti sui furbetti dei paradisi fiscali chiamano pesantemente in causa Ubi Banca, per la ex grande popolare lombarda le tinte del quadro sono sempre più fosche. Scorrendo l’esposto, confezionato ieri per la Procura della Repubblica di Milano dal presidente dell’Adusbef Elio Lannutti e dal presidente dell’Associazione piccoli azionisti Ubi Banca Giorgio Jannone, viene da pensare che per gli storici, quando vorranno capire lo sfarinamento del sistema bancario italiano, la storia esemplare non sarà né MontepaschiEtruria, ma proprio Ubi Banca. Il copione è perfetto, un Jurassic Park del credito che i “territori” di Bergamo e Brescia hanno custodito come un fossile in un guscio di ambra.

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Sull’Espresso, titolare dei Panama Papers, scrive Vittorio Malagutti: “Per Ubi la piattaforma d’operazioni per gli affari offshore si trovava in Lussemburgo (…) Nelle carte compaiono i nomi di 40 sigle offshore, registrate a Panama e alle isole Seychelles, che appaiono legate a Ubi. (…) Gli azionisti delle offshore sono da ricercare tra i clienti di Ubi, che via granducato e con l’assistenza dello studio panamense sono così riusciti a sbarcare in un paradiso fiscale”. Ubi, come sua abitudine, non ha emesso alcun comunicato. Fa parte di quella cultura bancaria che ritiene di non dover dare spiegazioni neppure agli azionisti. Lannutti e Jannone chiedono così ai magistrati di spiegare a che cosa servano due consociate in Cina, tre a Singapore, 16 in Lussemburgo e 8 nello stato americano del Delaware.

L’amministratore delegato Victor Massiah si muove impassibile nel complesso Risiko bancario con cui governo e Bankitalia tentano di salvare il sistema attraverso accoppiamenti giudiziosi tra istituti sani e banche malate. Ma Ubi non scoppia di salute. Meno di due mesi fa Deutsche Bank ha diffuso un impietoso report intitolato Headwinds on capital (Venti contrari sul capitale), rilevando come nell’ultimo trimestre del 2015 il Cet1 ratio (indicatore della solidità patrimoniale) sia sceso dal 12,56 all’11,62 per cento. Un anno fa il colosso tedesco assegnava a Ubi un obiettivo di prezzo di 7,2 euro per azione, oggi la stima è scesa a 5. Ieri la banca bergamasca ha perso in borsa il 6 per cento, chiudendo la giornata a 3,04 euro.

Ma la piccola oligarchia provinciale, fondata su un equilibrio medievale tra bergamaschi e bresciani, comanda ancora felice. Sabato scorso a Bergamo i soliti noti – che hanno ancora come totem il presidente bresciano di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli – si sono fatti beffe della riforma delle Popolari voluta dal governo Renzi. L’idea era di superare il voto per testa – che lasciava queste grandi banche in mano a cordate politiche o affaristiche locali – trasformandole in società per azioni.

Ubi è stata la prima grande popolare a diventare spa, e sabato ha fatto vedere che non è servito a niente. Al momento di eleggere il consiglio d’amministrazione è saltato fuori che la lista che ha preso più voti, quella presentata da Assogestioni – cioè dall’associazione dei fondi comuni d’investimento, fortemente condizionata dalle banche – aveva solo tre nomi, che peraltro avevano fatto sapere che non avrebbero accettato ruoli apicali. Così sono stati eletti a governare la banca i candidati della lista perdente, presentata dalla vecchia oligarchia che controlla appena il 17 per cento del capitale. Presidente del consiglio di sorveglianza è stato confermato Andrea Moltrasio, vicepresidente il noto avvocato Mario Cera. Al vertice del consiglio di gestione rimarrà l’imprenditore bresciano Franco Polotti. Per trovare un nome nuovo nel vertice bisogna accontentarsi di quello di Francesca Bazoli, la figlia del banchiere. Era già pronta tre anni fa, quando suo padre dovette lasciare il consiglio dell’Ubi per le norme sul conflitto d’interessi, ma ce l’ha fatta solo adesso che le Popolari sono state modernizzate.

L’esposto di Lannutti e Jannone chiede ai magistrati di spiegare il ruolo di Gregorio Gitti, genero di Bazoli in quanto marito della neo-consigliera, al centro di un sistema di società di diritto olandese usate per “cartolarizzare” le sofferenze. Si chiamano tutte Ubi-qualcosa ma non sarebbero dell’Ubi, risultando, secondo le accuse, quasi tutte controllate da misteriose fondazioni olandesi “il cui oggetto sociale parrebbe ad una prima analisi lontano dall’attività di recupero crediti bancari”. Dopo le prime denunce di Jannone diverse di queste società sono state poste in liquidazione.

Su tutto questo la vigilanza (passata dalla Banca d’Italia alla Bce) non sembra avere niente da dire. La severità con le banche è inversamente proporzionale alle dimensioni, e Ubi ha 115 miliardi di attivi. Eppure i dossier aperti sono numerosi. Milano indaga sulla controllata Iw Bank, banca online sospettata di essere uno snodo di riciclaggio ed esportazione di capitali. La lista dei reati ipotizzati comprende associazione a delinquere, riciclaggio, autoriciclaggio.

Un’inchiesta della procura di Bergamo vede numerosi indagati, tra cui Bazoli e Polotti, per i sospetti di manipolazione dell’assemblea del 2013. La vicenda portò a una raffica di perquisizioni nel 2014 e nel 2015, e la Consob ha sanzionato alcuni amministratori della banca, ma non sappiamo chi: la decisione è stata segretata perché – fate bene attenzione – la sua pubblicazione avrebbe provocato “grave rischio per i mercati finanziari” o “danno sproporzionato per le parti”. È così: la Consob, che vigila sul mercato, sanziona un comportamento scorretto ma dice che è talmente grave che è meglio che il mercato non lo sappia. Per Jurassic Ubi non ci sono regole, per le banche più piccole c’è il bail-in.

Da Il Fatto Quotidiano del  6 aprile 2016

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