Amoris laetitia consegna alla storia un solo vincitore. E non perché, nonostante il prezioso e scrupoloso lavoro “revisionista” di storici come Renzo De Felice e di giornalisti come Giampaolo Pansa, sia compito dei vincitori e non dei vinti tramandare ai posteri gli avvenimenti del passato omettendo a proprio piacere le pagine più imbarazzanti del racconto. Chi legge integralmente e senza pregiudizi l’attesa esortazione apostolica post sinodale sull’amore nella famiglia di Papa Francesco si accorgerà immediatamente che, seppure scritta da un celibe ottantenne, essa ha tutta la freschezza e l’autenticità di un giovane padre di famiglia. Si potrebbe persino osare, forti di quanto ha affermato Giovanni Paolo I che “Dio è madre”, che Amoris laetitia sembra scritta da una madre dei nostri tempi alle prese con l’educazione dei figli e i drammi delle dipendenze, come quelle della droga e di internet a cui il Papa dedica paragrafi importanti, ma anche con la difficoltà di coniugare la discriminazione femminile sul lavoro, la violenza in famiglia, la precarietà e i salari bassi a fronte di bollette sempre più alte e di una crisi economica che non cessa ad attenuarsi.

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Amoris laetitia non è il soliloquio di Bergoglio. E ha una forza in sé che riesce ad annientare e a ostracizzare i soliti commentatori di turno che, come sciacalli, si sono puntualmente presentati alla presentazione del documento, ovviamente senza averlo letto, soltanto per affermare se stessi e la loro pseudovicinanza al Papa per continuare così il loro tour autoreferenziale in lungo e in largo accreditandosi come esegeti di Francesco. Bergoglio lo tollera, pur comprendendo benissimo questo fenomeno, ma sapendo bene che la forza del suo messaggio, che deriva soltanto dal Vangelo, non viene scalfita minimamente dal narcisismo patologico di alcuni personaggi grotteschi. E nemmeno dalla massificazione mediatica che ha voluto trasformare subito Amoris laetitia nell’esortazione del sesso, quando sul tema Bergoglio non si differenzia assolutamente da ciò che hanno scritto Ratzinger, Wojtyla e Montini.

Di questo documento, che sembra arrivare dopo 30 anni di pontificato e invece Francesco è Papa da solo tre anni, l’unico e indiscusso vincitore è soltanto l’autore. E non solo perché consegna al mondo, non alla stretta geografia cattolica, un testo comprensibile da tutti. Non solo perché finalmente apre con chiarezza e determinatezza la porta di tutti i sette sacramenti ai divorziati risposati, seppure con un discernimento caso per caso. Ma perché Amoris laetitia è frutto di un cammino sinodale durato oltre due anni. Bergoglio l’avrebbe potuta scrivere pochi mesi dopo la sua elezione al pontificato, forte della sua immensa esperienza pastorale a Buenos Aires, arcidiocesi di quasi 3 milioni di abitanti con un divario enorme e impressionante tra miseria e lusso sfrenato.

Ma Francesco non lo ha fatto e non per mancanza di tempo o per l’accavallarsi degli impegni. Non lo ha fatto per non ripetere l’errore di arroccarsi sul monte, isolandosi e dettando ricette preconfezionate. Non lo ha fatto in nome di quella collegialità profondamente interiorizzata, vissuta, maturata e applicata. Una collegialità chiesta dalle congregazioni generali dei cardinali dopo le dimissioni di Benedetto XVI e attuata subito da Bergoglio, appena un mese dopo la sua elezione, con la nascita del C8, oggi C9, ovvero del Consiglio di 9 cardinali che si occupa, insieme col Papa, di governare la Chiesa e di riformare la Curia romana.

La collegialità ha vinto in Amoris laetitia. Due Sinodi dei vescovi sulla famiglia, nel 2014 e nel 2015. Due questionari con consultazioni in tutto il mondo: prima a livello capillare con i credenti e non credenti del globo; poi soltanto con i presuli del pianeta. Votazioni su tutti i paragrafi dei documenti finali. Nel 2014 i temi più delicati, i gay e i divorziati risposati non ottengono la maggioranza qualificata necessaria per l’approvazione di un testo conclusivo.

Nel 2015 una guerra mediatica impressionante per sabotare la libertà del dialogo in aula. Prima, alla vigilia dell’apertura del Sinodo, con il coming out a orologeria di monsignor Krzysztof Charamsa, che lavorava alla Congregazione per la dottrina della fede. Poi, nel corso del dibattito, con la lettera contro il metodo di lavoro e i temi scelti dal Papa firmata da 13 cardinali. Francesco ha portato serenamente la nave in porto, a dispetto di chi sperava facesse la fine della Concordia di Schettino e, seppure con soltanto due voti di maggioranza, è riuscito a far passare la comunione caso per caso per i divorziati risposati. Amoris laetitia fa sue le conclusioni del Sinodo con la forza di Bergoglio che è la forza della collegialità, del parlare chiaro in faccia, come ha detto ai vescovi messicani, anche litigando, ma senza sabotaggi e accordi sottobanco.

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