Entravo nella sua stanza per fargli vedere – stremato – la pagina della nera e lo trovavo a guardare su youtube uno spezzone di un film con Totò, sempre lo stesso. “Badate colonnello, io ho carta bianca!”. “E ci si pulisca il culo!”. Rideva come se lo vedesse per la prima volta, eppure sarà stata la trecentesima, sempre lo stesso spezzone, con il logo di Rete4 ancora giallo. Emi, un po’ storto sulla sedia, con una gamba sotto al sedere, non rideva per l’unica parolaccia di Totò. Rideva perché quel “culo” così gridato da Totò in faccia all’altro era di chi si ribellava alle regole, all’autorità, al “deve andare così”. Era la ribellione all’arroganza dell’ordine costituito. Non gli bastava fare le pulci a chi deteneva il potere: assaporava anche lo sberleffo, meritato. Una delle frasi che citava e parafrasava più volte è quella di Fortebraccio: “Si aprì la porta e non entrò nessuno: era Cariglia”.

Hanno ragione tutti quelli che hanno scritto che era libero. Una volta Cristiano Lucarelli, padrone del quotidiano dove Emi faceva il direttore e io la nera, gli disse più o meno che lui buttava i soldi in un giornale che non vendeva. “Con i tuoi soldi ti ci puoi pulire il culo” gli urlò al telefono.

Era libero e allora scassava tutto, soprattutto le regole. Gli piaceva rovinare i programmi, i piani. Far diventare inatteso quello che era prevedibile. E a volte gli piaceva farlo per il gusto di farlo. Pum: un pugno in faccia all’altro nel dibattito in tv e vediamo lui come l’effetto che fa. Quello che l’ha descritto meglio, oggi, è stato Alessandro Barabino, che è stato uno dei suoi capi al Tirreno, qualche tempo fa.

Ha rotto le scatole fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo minuto. Ero venuto in redazione un po’ prima per scrivere un pezzo, Emi, non per piangere per te. Perché devi sempre interrompere quando mi sono già organizzato la giornata?

Pum, ce l’ha dato a tutti il pugno. All’ennesima ora di commenti su twitter (perfino dei verdiniani, Emi!) avrebbe detto “che palle”, ma li avrebbe letti tutti, uno per uno. Scassava tutto, eppure tutti gli vogliono bene. Scassava tutto eppure metteva insieme mondi diversi, da Gene Gnocchi al ministro della Salute, dal capo del governo a Panariello, da Luciano Bianciardi alla Vita in diretta. Scassava tutto, ma ora lo salutano tutti quelli che si prendono a insulti tutti i giorni: Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini. Incredibile per lui che era del Fatto Quotidiano prima che il Fatto Quotidiano nascesse: anti-privilegi, anti-casta, anti-mafie.

E allora guarda cosa mi fa fare, ora, quel rompicoglioni: mi fa scrivere in prima persona. A me che scomparirei sempre sotto terra ogni volta che firmo su un giornale. Come al solito mi fa fare quello di cui non avrei mai avuto voglia.

Chiedetelo a Martina e agli altri colleghi emiliani, che dopo di me hanno dovuto sopportarlo con le sue richieste che sembravano sempre la Luna (“Vabbè, chiama Juncker, che problema sarà?”) e invece è la regola di chi fa il nostro lavoro: provarci sempre. Non sapete che pena tornare in redazione, da lui, dopo che non ero riuscito a trovare la foto del morto nell’incidente stradale, quella per cui tutti dicono “Ah, che vergogna i giornalisti sciacalli” ed è poi lo stesso motivo per cui tutti comprano il giornale.

Diceva che ero lento. “Scriviii” gridava mentre passava davanti alla mia scrivania anche se stavo già scrivendo. Ero lento, tra l’altro, perché voleva che una notizia con pochi elementi diventasse sempre il pezzo del secolo. “Insabbi”. A volte vedeva le brevi e mi faceva fare le aperture di pagina. Dimenticava però che io non ero lui che riusciva a sceneggiare anche un cane che piscia. “Emi, scusa, ma di questo si sa poco, non so cosa scriverci”. “Eh, vabbè, ci scrivi la questura, le cose”. Le cose. Sono sempre uscito dalla sua stanza senza capire cos’erano, le cose.

Scassava tutto e rovinava i piani. Faceva saltare le cene, le serate con gli amici, i giorni di riposo, le vacanze. Sbriciolava la routine. Così mi ha cambiato la vita almeno due volte, in modo decisivo, determinante, forse definitivo. E’ a lui che devo il fatto di poter fare questo mestiere, che sognano tutti, ora in un giornale importante, diventata la mia famiglia, come lo era lui. Per due volte mi ha tirato su dalla melassa in cui facevo il bagno, sereno perché senza colpi di scena, e mi ha trascinato in pezzi di vita su altri pianeti.

La prima volta mi chiese di lasciare il Tirreno, dove cominciano quasi tutti quelli che a Livorno vogliono fare questo lavoro, per seguirlo al Corriere di Livorno. Al Tirreno ero collaboratore, prendevo 5 euro a pezzo, con un contratto a progetto, da 9 anni. Al Corriere avrei avuto il praticantato, fondamentale per fare l’esame di Stato e diventare professionista. Eppure ci pensai. Ci pensai due, tre, quattro giorni. Ma come? Chiunque avrebbe detto: sì, subito! Io invece non ci dormii. Il Tirreno era stata la mia scuola, lì avevo buoni rapporti con tutti: sentivo di dover essere riconoscente, di “non tradire”. Lui era basito, sgranò gli occhi celesti, snasò. Alla fine mi convinsi e ho imparato – a suon di buchi – com’è fatta la nera, che sui giornali nemmeno leggevo. Ad amare la giudiziaria, a farla un po’ meno. A volte mi faceva schiacciare sull’acceleratore e infatti una volta c’hanno anche condannato, tutt’e due. Un’altra volta, invece, ci perquisirono i carabinieri, fino alle camere da letto delle rispettive abitazioni (gli piaceva parecchio l’anteprima esclusiva, sapete, a Emi).

La seconda volta fece il mio nome a Peter Gomez. Io ero nella solita melassa. Lavoravo da Livorno per l’Ansa, la mia università, quella che ringrazierò tutta la vita per come insegna a fare bene questo lavoro. Ma anche lì contrattino, 5-6 euro a lancio. Ebbi un po’ di fortuna con la storia della Costa Concordia: Schettino che abbandona la nave, quella storia lì. La scrivemmo anche per il Fatto e Emi – che non sentivo da non so quanto – mi disse: “Lo dico a Gomez”. E io: “Guarda, Emi, che io non sono da Fatto Quotidiano, lo sai come sono”. “No, tranquillo, è tutto desk”. Non era tutto desk, il passaggio di pezzi di altri: era anche desk.

Mi mentì perché sapeva quello che io non sapevo. Lo aveva sempre saputo. Lo ha saputo fino a due giorni fa, quando abbiamo firmato insieme una pagina sul giornale di lunedì, parlando della tragedia del Moby Prince: era la seconda volta che succedeva, quella precedente era stata per la storia della Concordia.

Rompeva, ma ero molto orgoglioso di lui, forse l’aveva capito. Ho scioperato, quando lo licenziarono da direttore del Corriere di Livorno. Avevo capito dov’erano le persone per bene e dove no. Eravamo diversi, lontani anni-luce. Lui scriveva sempre sicuro di sé, spregiudicato, io ho paura se sbaglio una virgola, riascolto le sbobinature delle interviste 4 volte. Io ho la fissazione di dover apparire imparziale, lui voleva essere parziale. Difendeva la sua parte, il suo modo di vedere il mondo. E se coincideva con quello di qualcun altro (un leader politico o un edicolante), tanto meglio. Eravamo agli antipodi. Ma mi fece scrivere il pezzo che ricordava suo padre, Livio, morto un anno fa. “Fallo te”. Era Livio che una volta mi insegnò che si può scrivere tutto, basta saperlo dire.

Credo di avere il carisma di Cariglia, eppure lui – tra tutti – ha scelto me: una, due, cinque, dieci volte.

Niente complimenti, solo fiducia. Sapeva quello che io non sapevo. Cioè che ero grande abbastanza, forte abbastanza per fare questo lavoro. Non lo so se è vero, ma fuori dalle redazioni di tutti i giornali ci sono ragazzi che sono com’ero io dieci anni fa, che affogano nei pezzi da 5 euro ciascuno. A loro Emiliano oggi (ieri, domani) vorrebbe dire di non avere paura, soprattutto di chi scassa la vita. Io, invece, seduto davanti al computer, a volte metto la gamba sotto al sedere.

Lo so, Emi, lo so. E’ troppo lungo. Ho finito.

Ps. Diceva che Martina scrive meglio di me. Aveva torto. Ma per questa volta ha avuto ragione.

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