Il tema dei cervelli in fuga? Una “retorica trita e ritrita” dalla quale “è importante uscire”. Di ritorno dal viaggio negli Stati Uniti, dove ha incontrato anche accademici e studiosi connazionali, Matteo Renzi nella sua enews parla dell’emigrazione degli italiani che si trasferiscono all’estero per proseguire la loro carriera. “In un mondo globale”, continua, lasciare l’Italia “può non essere una fuga ma un’occasione anche per il territorio d’origine”. Concetti che aveva ribadito anche nel corso del viaggio americano: ai ricercatori italiani del Fermi Lab, laboratorio di eccellenza mondiale della fisica di Chicago, ha detto: “Non vi dico di tornare a casa, ma se tornate dovete sapere di tornare in una paese dove la ricerca è fondamentale. Sono orgoglioso di voi. Il mio indirizzo è matteo@governo.it, restiamo in contatto”. Parole che fanno riecheggiare anche l'”orgoglio” espresso su Facebook dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini in occasione della vittoria del bando Erc 2015, dove 30 ricercatori italiani sono stati premiati. Diciassette di loro, però, erano cervelli in fuga. L’entusiamo e l’orgoglio del ministro, allora, erano stati ridimensionati dalla risposta, sempre via social network, della ricercatrice Roberta D’Alessandro, oggi in Olanda. “La Giannini entusiasta degli studiosi italiani? – aveva detto al Fatto.it – Io non faccio parte della ricerca del mio Paese, che mi ha cacciata”.

Ma nelle sue dichiarazioni dagli Usa e nella enews, Renzi non parla di criticità. Anzi. La “fuga può diventare un’occasione per il territorio d’origine”, prosegue, a “condizione che si affermi la legalità, si riduca la burocrazia e si crei finalmente una finanza per le piccole imprese in grado di far girare le idee. E di realizzare i sogni che tanti di questi ragazzi hanno”. Poi racconta di avere incontrato a Boston una quindicina di giovani ‘cervelli’ durante una “prima colazione intrigante” da cui sono uscite “idee, proposte concrete, progetti di apertura di startup a Palermo e a Napoli“. E durante la missione ha anche visitato l’università di Harvard. “Ormai – osserva il premier – sta diventando una consuetudine: in tutti i viaggi cerco sempre di incontrare gli studenti e i professori di una università. Credo infatti che proprio in queste aule si respiri il futuro più che altrove e ritengo sia un dovere civico confrontarsi con il corpo docente e gli studenti. Il tour universitario è partito a Bologna, nell’università più antica del mondo ma ha toccato la Germania e il Kenya, il Cile e il Senegal, la Sorbona e Georgetown“. Poi la promessa: “Continueremo a girare per università con le proposte italiane per un’Europa più umana”.

Davanti ai ricercatori del FermiLab ha anche parlato della visione che deve avere Italia: è necessario che “torni ad avere una strategia – ha detto – non solo belle individualità e team”. Come governo, ha continuato, “abbiamo deciso non solo più soldi ma certezze in concorsi, investimenti. Mettiamo 2,5 miliardi nella ricerca per dare un segnale di riequilibrio. Siamo orgogliosi di quello che fate. Nelle riforme stiamo rimettendo al centro la ricerca, l’innovazione”. Di fatto, l’esecutivo ha anche messo a punto un piano per il rientro dei cervelli, che prevede di stanziare “40 milioni per il prossimo anno e 100 milioni dal 2017”. Ma negli anni scorsi le misure messe in campo non hanno raggiunto risultati soddisfacenti.

Nessun riferimento, però, agli oltre 66mila ricercatori precari dell’università italiana, un numero superiore a quello di professori e ricercatori a tempo indeterminato messi assieme. E che spesso lavorano gratuitamente, come è emerso da un’indagine interna del Coordinamento nazionale non strutturati. Nessun riferimento alla logica dei “bandi finti, dei baroni e dei tagli”, riportati nella lettera inviata da una ricercatrice al presidente del Consiglio. E manca anche qualsiasi accenno ai numeri relativi alla “fuga” dei ricercatori all’estero – in aumento negli ultimi anni -, spesso per mancanza di alternative che valorizzino il loro percorso professionale. Secondo l’Istat, “3mila dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo nel 2008 e nel 2010 (il 12,9%) vivono abitualmente all’estero” e “la mobilità verso l’estero è superiore di quasi sei punti a quella della precedente indagine (7% dei dottori di ricerca delle coorti 2004 e 2006)”.

Cifre complessive e attendibili in grado di censire il reale numero di ricercatori italiani all’estero al momento non esistono, ma le stime delineano un trend. Chiarissimo. Secondo l’Associazione precari della ricerca italiani quelli che oggi lavorano all’estero sono 12mila. Ogni anno se ne vanno in più di tremila e l’Italia rischia di avere 30mila connazionali fuori dai suoi confini entro il 2020.

Partenze che non saranno compensate dall’ingresso di colleghi stranieri, come conferma anche in rapporto della Commissione Ue. Il dossier di febbraio ha sottolineato come la fuga dei cervelli possa compromettere la competitività dell’Italia e la sua crescita. Il numero di giovani altamente qualificati che emigrano all’estero è cresciuto rapidamente a partire dal 2010 e non è stato compensato da flussi di italiani, con pari qualifiche, che hanno fatto rientro in patria. E non si tratta nemmeno di “scambio” di cervelli: perché sono pochi gli stranieri altamente qualificati che scelgono l’Italia come Paese di destinazione.

Gli italiani che decidono di emigrare, però, aumentano e non solo nell’ambito della ricerca. Secondo l’ultimo studio della Fondazione Migrantes, ad esempio, basato sugli iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) – negli ultimi 10 anni il flusso è aumentato del 49,3%. E per le statistiche di Eurostat tre anni dopo fine degli studi solo il 53% dei laureati lavora. Il dato peggiore della Ue dopo la Grecia.

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