L’impalpabile ministra dello Sviluppo Federica Guidi se ne va e un antico adagio consiglierebbe le si facessero “ponti d’oro”. Del resto non si è mai capito bene che cosa apportasse alla compagine governativa questa figlia d’arte educata a una visione punitiva del lavoro (il padre Guidalberto è sempre stato un falco di Confindustria), trascurabile presidentessa nazionale del Rotaract dei Giovani Imprenditori (il club dei padroncini under 40), simpatizzante berlusconiana conversa renziana.

Un personaggio destinato a finire immediatamente nel dimenticatoio se non avesse lasciato, sul davanzale della casetta di marzapane abitata da Maria Elena “Biancaneve” Boschi e dai nanetti del Giglio Magico, la mela avvelenata del coinvolgimento negli affari petroliferi di Total e altri faccendieri.

Camera dei Deputati - Voto di sfiducia al ministro Maria Elena Boschi

Ora la Boschi potrà ammansirci l’abituale repertorio di ovvietà a propria discolpa. Subito sostenuta dalla canea di orchi da blog che la cordata al potere è solita scatenare contro i critici web.

Eppure le vicissitudini delle due bamboline di governo ripropongono alcune domande di un certo interesse per analizzare dove siamo andati a finire: cosa hanno in testa questi/e giovanotti/e di belle speranze e scarse attitudini, chi li ha condotti per mano alle loro poltrone e perché?

Il primo dato è – al tempo – sociale e generazionale: in larga massima si tratta di borghesucci emergenti (anche se la Guidi è nata “con il cucchiaio d’argento in bocca”) che l’accesso alle stanze del potere e alle relative opportunità in materia di consumo vistoso ha letteralmente fatto impazzire. Finiti i tempi in cui l’outsider Matteo Renzi girava per Roma sulla giovanilistica smart scassata dell’amico Ernesto Carbone. Oggi ci si compra gli Air Force One esibizionisti, così da far schiattare d’invidia la Merkel (che viaggia su un vecchio Lufthansa restaurato); per andare a sciare a Courmayeur ci sono elicotteri di Stato su cui il parvenu può liberamente pavoneggiarsi.

Marginalità gossipare? Nient’affatto, visto che rivelano l’inquietante formazione di una mentalità per cui la “cosa pubblica” diventa “cosa propria”. La relativa interruzione dei corretti rapporti con la realtà tradotta in conseguente estraniazione. Ossia il senso – al tempo – di insindacabilità e invulnerabilità che parrebbe autorizzare comportamenti sull’asse capriccio-abuso, nella presunzione di non dover minimamente essere chiamati a risponderne. Una turbativa patologica del percepito che non si limita alle sedi centrali, ma che abbiamo visto dilagare a 360° in quelle periferiche, in primo luogo regionali (difatti gli attuali reggitori contro-riformisti della cosa pubblica vorrebbero arruolare il nuovo personale senatoriale proprio in tali congreghe ad elevato inquinamento dissipatorio).

Si determina così – alla faccia di quei pezzenti dei concittadini – la pericolosissima “sindrome da divinità dell’Olimpo”, a cui tutto è concesso; coltivata per effetto di contiguità pure dai familiari, nei più svariati esercizi di affarismo spregiudicato: dagli istituti bancari agli outlet (finanza di rapina e consumismo bulimico: i grandi business del tempo, secondo i vigenti criteri della neoborghesia accaparratrice).

Stabilito che il nuovo ceto politico che ci guida verso la Terza Repubblica ha (incredibilmente) meno senso dello Stato di quello (tangentaro) della tarda Prima, sarebbe interessante capire quali siano state le “mani” che ne resero irresistibile l’ascesa. E per quali scopi.

Il secondo quesito ha una facile risposta: la corporazione del potere perseguiva rinnovamenti di facciata per continuare negli antichi andazzi. Più difficile capire chi fossero i veri mandanti; trovare una “pistola fumante” come nel salvataggio della politica corrotta al tempo di Mani Pulite, in cui Marco Pannella inventò l’abile deviazione della questione morale in questione istituzionale, spiegando che con il maggioritario tutto sarebbe andato a posto, e Silvio Berlusconi ci mise di suo la potenza mediatico-comunicativa. Per ora è difficile decifrare l’identità del “grande vecchio” del renzismo: Berlusconi è cotto e cerca solo un buen retiro, Denis Verdini può fare al massimo il capitano di ventura, Giorgio Napolitano era già stato la levatrice di Monti e Letta… Che siano nati sotto un cavolo?

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