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Se concretamente vogliamo aprire un discorso costruttivo su questa visione dell’impresa virtuale olonica allora bisogna affrontare il punto 2 del ‘manifesto’ del Prim (Piano di Riconversione Industriale Manifatturiero).

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2. Educare gli imprenditori verso le tecniche gestionali necessarie per aziende ‘oloniche’

E’ questo un punto estremamente delicato: forse il più difficile.

Esaminiamo, per spiegarci bene, il caso di una azienda che opera sul mercato aperto e, a sua volta, libera da ogni impegno di rete. In questo caso la ricerca quotidiana di commesse da produrre e fatturare non risponde a vincoli particolari se non quello di riuscire a realizzare, a fine esercizio, un buon risultato sia in termini economici (guadagno) sia in termini finanziari (liquidità). Le due ‘risultanze economiche/finanziarie’ non è detto che debbano andare di pari passo: si tratta di definire la politica di bilancio. Di sicuro, però, l’imprenditore accorto tiene d’occhio molto di più la componente finanziaria (liquidità) che non quella del guadagno.

E’ bene chiarire subito che oggi la tecnica di conduzione aziendale day-by-day non consente il controllo della liquidità se non in relazione ad un periodo temporale ben definito (nel quale si possano conoscere esattamente i costi fissi aziendali) e in relazione al valore aziendale globale: la grande azienda si comporta allo stesso modo del salumiere sotto casa, che alla fine del mese tira il cassetto e guarda quanti soldi ci sono dentro solo che, invece di tirare il cassetto cerca di saperlo facendo dei conteggi. Ma la sostanza non cambia: se l’azienda ha perso liquidità lo si viene a sapere a cose fatte… quando il cadavere è già freddo.

Questo fenomeno, che porta sempre con sé contenuti di pericolosità, è particolarmente rischioso per quelle aziende nelle quali la conduzione quotidiana viene sostanzialmente gestita da un decisore monocratico, o un ristrettissimo gruppo di decisori: caratteristica questa che contrassegna la stragrande maggioranza delle aziende nostre manifatturiere. Questa struttura gestionale dà a queste aziende il vantaggio di avere – generalmente – dei bassi costi fissi ma diventa molto più problematico rendersi conto in progress se si sta predisponendo un buon bilancio (soprattutto sotto l’aspetto della liquidità) o meno.

Ora immaginiamo, anche se in modo molto superficiale, di prendere in considerazione la stessa azienda di cui sopra che, però, ha stipulato un accordo in rete con un’altra azienda. Sulla base di questo accordo da una lato riceverà in cambio la garanzia di richieste di forniture ben definite sia nel mix che nelle quantità che nel prezzo/pagamento. Dall’altro dovrà fornire garanzie di rispetto dei termini qualitativi e contrattuali e, importantissimo, garanzie di riservatezza sui contenuti tecnologici e di know-how afferenti all’azienda-cliente.

Questo contratto ha una caratteristica fondamentale: rende possibile, infatti conoscere con precisione due dati basilari. La cifra d’affari (fatturato) da attendersi dalla realizzazione di questo accordo e l’ammontare del manufacturing cost (costo di fabbricazione del prodotto, calcolato al cancello dell’unità produttiva, non dell’azienda): la differenza (‘margine di contribuzione’) ci dice quanta parte dei costi generali aziendali attesi in capo ad un anno di esercizio saranno coperti da questa attività.

In uno scenario di questo tipo, virtualmente l’azienda viene contabilmente divisa in due parti: una parte A (in rete) dalla visione economica e finanziaria certa e una parte B (mercato libero) di cui si sa soltanto che, al termine dell’anno sociale, il margine di contribuzione dovrà superare il monte dei costi fissi residuali.

In relazione alla parte A il criterio con il quale si cerca, di solito, di impostare i rapporti è quello del prezzo a costo remunerato. Si individua cioè un prezzo di passaggio del prodotto (o dei prodotti) dall’una azienda all’altra impostato in modo tale da fornire una copertura concordata al manufacturing cost del prodotto. Può anche essere che la pattuizione formuli un prezzo concordato apparentemente poco attrattivo.

Bisogna però tenere presenti alcune considerazioni molto importanti:
– intanto la copertura dei costi fissi da parte della azienda A è certa;
– l’azienda A fruisce della crescita tecnologica che la collaborazione con un’impresa Oem permette, come se fosse un reparto interno della medesima Oem;
– l’immagine che ne deriva diventa funzionale a stabilire un livello più alto per l’azienda B nel suo rapporto col mercato libero;
– il livello di attrazione dell’azienda (A + B) nei confronti col mondo del credito cresce sensibilmente;
– il livello ‘culturale’ per quanto attiene alla gestione aziendale sotto il profilo marketing e sotto il profilo ‘finanziario’ cresce insieme con quello dell’azienda OEM collegata in rete.

In questo quadro nulla toglie alla possibilità di operare con una seconda azienda Oem a latere: sarebbe come ripartire l’azienda iniziale in tre parti (A, B, C) , senza limiti teorici prefissabili.

E’ evidente che una impostazione aziendale del genere opera una trasformazione profonda nell’azienda originaria Ssm ma tutto questo avverrebbe senza alterare le proprietà iniziali della medesima: il corpo sociale originario resta inalterato e maggiormente garantito.

Per quanto riguarda l’opinione di chi scrive, la crescita culturale di un’azienda Ssm inserita in rete con una o più aziende Oem costituisce il risultato più importante di questa visione gestionale allargata. E’ bene rendersi conto che nel nostro ‘sistema manifatturiero’, pur con le dovute e lodevoli eccezioni, il rischio della sindrome di Penelope incombe sempre e in modo pesante: quello di distruggere – quanto meno parzialmente – con la gestione/marketing scorretta e con la gestione/finanza difensiva quel profitto che l’officina produce e questo proprio grazie all’orientamento molto al prodotto e poco al business che costituisce una caratteristica molto diffusa del nostro imprenditorato.

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