“Offesa alle istituzioni”, “istigazione”, “dileggio delle figure sacre islamiche”, “accusa a pubblico ufficiale di aver ucciso manifestanti ad Adawiyya” (nella turbolenta Provincia orientale a maggioranza sciita) e “violazione dell’articolo 6 della Legge sui reati informatici”.

Giudicato colpevole di tutto ciò, giovedì 24 marzo il giornalista saudita Alaa Brinji è stato condannato dal Tribunale penale speciale (la corte che si occupa di casi di terrorismo) a cinque anni di carcere e a una multa equivalente a 12.000 euro, seguiti dal divieto di viaggio all’estero per otto anni.

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Meno male che è stato assolto dall’accusa di apostasia per insufficienza di prove, altrimenti la pena sarebbe stata la decapitazione in pubblica piazza…

Fino all’arresto, eseguito il 12 maggio 2014, Brinji era un affermato e rispettato giornalista che per anni aveva scritto sui quotidiani al-Bilad, Okaz e al-Sharq.

Ma questo non è bastato a ripararlo dalla repressione che, proprio dal 2014, ha colpito sempre più duro nei confronti di dissidenti, attivisti e oppositori.

A portarlo in galera sono stati sufficienti alcuni tweet, in favore del diritto delle donne a guidare da sole, in difesa dei difensori dei diritti umani sotto processo e per la scarcerazione dei prigionieri di coscienza.

Quello di Brinji è un ulteriore esempi di come le autorità saudite usino le norme anti-terrorismo per sradicare ogni forma di dissenso: una repressione facilitata dal silenzio complice dei governi alleati, per i quali l’Arabia Saudita è un partner indispensabile in materia di sicurezza e un redditizio mercato per la vendita delle armi. Quelle armi, provenienti anche dall’Italia, con cui l’Arabia Saudita continua a fare stragi di civili nello Yemen, esattamente da un anno.

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