Cosa hanno in comune Galileo Galilei, Jean-Jacques Rousseau, Alessandro Manzoni, Albert Einstein, Lev Tolstoj, Charlie Chaplin? Senz’altro un’irrefrenabile e sregolata genialità, ma anche l’innata e testimoniata capacità di essere pessimi genitori. I cahiers de doleances dei figli, anzi delle decine di figli, di cotanti padri risuonano tre le pagine di un libro come monito verso quei geni attenti al proprio ego ma incapaci di una carezza ai figli. Meglio la testa china su I promossi sposi che un rigo scritto alle figlie. Meglio l’esame certosino di 150 ciak per una comica che un filmino di affettuosità con le bambine che acclamano papà. Di queste e di altre amenità di babbi celebri, che non ci hanno saputo per niente fare coi figli, racconta il giornalista Maurizio Quilici – attenzione, a sua detta due volte marito e una step father, in tutto quattro figli a rimorchio – nel ricco e pungente saggio Grandi uomini piccoli padri, edito da Fazi.

Detto che Quilici era già stato cinque anni fa abile compositore di un altro lungo, densissimo e innovativo saggio intitolato Storia della Paternità (Fazi), qui siamo di fronte alla descrizione di un sestetto di emeriti fetenti: padri assenti, disinteressati, scostanti, perfino spesso infastiditi dalle mansioni del proprio ruolo genitoriale.

Essere figlio di un grande uomo può essere uno svantaggio; è come vivere accanto a un immenso monumento; uno passa la sua vita a girarci attorno, restando nella sua ombra o evitandola”, racconta Michael Chaplin, uno degli undici figli di Charlot. Perché la vertigine letteraria basso-alto, un po’ come la traiettoria del bimbetto che guarda su tirando con una mano i pantaloni di papà, di questo volume di Quilici è, paradossalmente, non tanto l’evidente vuoto paterno nella crescita e nel confronto familiare, quanto il dolore continuo dei figli, e delle figlie, che implorano attenzione come cani verso i propri padri.

Le lettere che la povera Virginia, rinchiusa fin da 13 anni da papà Galileo Galilei in un convento fiorentino, manda all’importante genitore, sono piene di una malinconica speranza e lancinante attesa per poter sfiorare nuovamente un lembo di mantello dell’augusto padre. Che pena e che strazio leggere le parole di Charles Junior, figlio di Chaplin e della seconda moglie di lui, in attesa da cinque mesi di rivedere e rileggere una parola del padre intento al viaggio con Paulette Goddard e ai vagiti de Il Grande dittatore, quando ricorda nella sua biografia: “comunque siamo sicuri che papà ci pensasse sempre”.

Galilei ebbe tre figli mai dichiarati per vergogna o “nati per fornicazione”. Dell’epistolario della primogenita Virginia s’è detto, come dei silenzi del padre, definito dai biografi come “uomo crudele” che “sa misurare le distanze tra pianeta e pianeta ma non tra cuore e cuore”.

Rousseau, padre della moderna pedagogia ed illuminista, ebbe 5 figli e li portò tutti, tutti non quattro o tre, appena nati, all’ospizio dei trovatelli: “il primo fu un atto risoluto, senza il minimo scrupolo”, “l’anno dopo stesso inconveniente, medesimo espediente”, e via così. Lo faceva perché pensava, a sua detta, che con lui sarebbero stati peggio perché non poteva mantenerli.

Manzoni di figli ne ha avuti dieci. E anch’esso di fronte ad una delle figlie, Matilde, sbattuta lontana, mantenuta da altri, che lo implorava via lettera di andare a trovarla perché malata di tisi stava per morire, lui temporeggiava, cinque anni di assenza totale, pensando ai suoi bachi da seta e ai suoi gelsi “forse verrò a fine estate”. “Non volse mai a sua figlia uno di quegli sguardi profondi che il poeta gitta nel cuore umano che riservò al cuore dei suoi personaggi”.

Tolstoj (13 figli) come Chaplin (11) pare fosse un gran giocherellone con i suoi bimbi ma quando si trattava di educazione, di vicinanza e di affetto scompariva dalla circolazione. Una delle figlie dell’autore di Anna Karenina, Sof’ja, lo accusò di “indifferenza costante”; così come Jane Chaplin calcolò l’intero tempo passato da Charlie con lei: 17 minuti. Troppo impegnati a cambiare il mondo e a gonfiare il proprio ego, i papini celebri e geni. Einstein, teoria delle relatività ancora da venire, la primogenita appena nata la fece perfino sparire. Così, abracadabra. Ne si ritroveranno tracce postume di vita soltanto nel 1987.

“Non voglio giudicare nessuno. Nessuna condanna morale, ma disaccordo e disapprovazione sì”, spiega Quilici nell’introduzione citando altri papà geni distratti come Woody Allen, Dickens e il Mahatma Gandhi. “Il libro vuole solo sottolineare come a volte la genitorialità segua percorsi ben strani, e magari la si ritrovi tenera e premurosa dove non ce lo saremmo aspettato e invece assente quando avremmo immaginato il contrario”.

Quilici non dimentica la contestualizzazione storica, anzi la mette debitamente in conto, inquadrando usanze, tradizioni, squilibri uomo/donna (ci sono state anche mamme genio che hanno trascurato a morte i figli, ma questo è un altro libro) finendo quasi a suggerire che alla fine di esempi da seguire ce ne sono pochi, e al massimo all’occorrenza si appronta qualcosa da sé: “Benjamin Spock, il “guru” americano della pediatria che con le tante edizioni del suo manuale (cinquanta milioni di copie dal 1946 al 2011) ha insegnato a milioni di genitori in tutto il mondo come allevare e educare la prole, all’insegna di un permissivismo che negli ultimi anni sconfessò, fu accusato dai figli John e Mike, in un’intervista alla BBC del 1997, di essere stato un padre “freddo, incapace di trasmettere calore”. “Non mi ha mai dato un bacio né un abbraccio”, spiegò Mike, “quando ero adolescente e ci vedevamo mi dava la mano”.

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