“A Shanghai sono stato tempestato di domande sul Jobs act dal mio omologo cinese. E’ una riforma che funziona e vogliono adottarlo anche loro”. Così ha raccontato Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, parlando dell’ultimo G20 in Cina. Eppure, agli occhi degli esperti, le parole del titolare del Tesoro stridono con la realtà del mercato del lavoro cinese. “Mi sembrano affermazioni un po’ ridicole – commenta Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore del centro studi Adapt – in Cina c’è già una grande flessibilità del lavoro, tema al centro del Jobs act. Invece, le condizioni del lavoro sono molto arretrate. Ci sarebbe bisogno di salari decenti, di un riconoscimento dei sindacati e della contrattazione collettiva, di norme sulla sicurezza del posto di lavoro. Tutte questioni che non c’entrano con il Jobs act”.

La riforma del lavoro targata Matteo Renzi e Giuliano Poletti, come noto, ha puntato a liberalizzare il mercato del lavoro, facilitando i licenziamenti e in particolare abolendo la reintegrazione del lavoratore nella quasi totalità dei casi. Per altro, l’ottimismo di Padoan (“è una riforma che funziona”) scricchiola di fronte agli ultimi numeri Inps sui contratti, che indicano come l’aumento dei rapporti dei lavoro stabili siano legati più agli sgravi contributivi che al Jobs act. “Non credo che la Cina abbia bisogno di riflettere sul tema dei licenziamenti e delle assunzioni – spiega Tiraboschi – La realtà del mondo del lavoro cinese è già molto flessibile e selvaggia“. A riprova di quanto detto dal professore, a febbraio Yin Weimin, ministro per le Risorse umane e la sicurezza sociale, ha annunciato il taglio di 1,8 milioni di posti di lavoro nelle aziende statali attive nel settore del carbone e dell’acciaio. Ma l’agenzia Reuters ha aggiunto che potrebbero essere a rischio 6 milioni di lavoratori.

Insomma, sembra difficile che il governo cinese intenda facilitare ulteriormente i licenziamenti. Al contrario, sono i lavoratori del gigante asiatico che sentono l’esigenza di radicali cambiamenti. E non certo di quelli previsti dal Jobs act. “La Cina avrebbe bisogno di importare le norme sulla sicurezza del lavoro, sull’impatto ambientale dell’impresa, sui livelli retributivi che ora sono indecenti, sulla libertà sindacale”, aggiunge il giuslavorista. Sul fronte delle condizioni di lavoro, negli ultimi anni ha fatto scalpore l’escalation di suicidi dei dipendenti dell’azienda Foxconn, che produce dispositivi hi-tech per conto della Apple. E le imprese hanno gioco facile a passare sopra ai diritti dei lavoratori, data la debolezza della rete di difesa dei dipendenti. In Cina infatti esiste un sindacato unico, allineato con la politica del Partito comunista cinese e accusato di avallare lo sfruttamento dei lavoratori. In sostanza, si tratta di temi non toccati dal nostrano Jobs act.

D’altra parte, non sarebbe la prima volta che la Cina annuncia interventi legislativi in materia di lavoro. “Già nel 2007, il governo cinese ha approvato una riforma, tentando di importare le migliori esperienze a livello internazionale – spiega Tiraboschi – Il problema è che si tratta solo di un intervento di facciata. Le nuove norme sono applicate solo nel caso di multinazionali di altri Paesi, mentre nelle imprese cinesi queste leggi non sono utilizzate e le condizioni dei lavoratori sono di ben altro tipo”.

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